Novara e punto

Ritorno.

Mercerie chiuse, pasticcerie chiuse, librerie e negozi di dischi chiusi.
Me lo raccontano i fondi sfitti, più forti delle immagini che, da bambino, collezionavo ogni giorno, per via di certi colori e di certi odori che, senza chiedere permesso, si depositavano nella mia memoria.

La desolazione dell’abbandono trova consolazione nell’eco di cortesie scambiate, decenni fa, all’interno di quei locali.
È un calore perso, tuttavia, una foto sbiadita, il margine di una pagina ormai dilavata, che non può essere catalogata, per raggiunti limiti di usura. Ah, quella carogna del tempo.

Per fortuna, invece, alcuni posti sopravvivono alla rovina e alle miserie umane, continuando a fondersi con quella tipica nebbia padana, che ho abbandonato quasi vent’anni fa.

Eccolo lì, il mio angolo magico. Eccolo, insieme a storie che le panchine non vorrebbero raccontare, rispolverando le prime trasgressioni e i primi baci rubati, lontani da genitori indiscreti e gelosi. Certo: le nuove leve mi riderebbero in faccia, ma chi se ne fotte.

È ancora lì, la vedo: è una semplice panchina, oggi.
All’epoca fu teatro di scambi di effusioni e di promesse d’amore infrante dal desiderio di nuove esperienze (più o meno lecite) cancellate ormai da centinaia di docce e di distese di asfalto che, nel tempo, sono riuscite ad asfaltare anche i miei sentimenti.

È strano rivederti oggi, Nüara.
E sarà ancora più strano rivederti, quando andrò via, sopravvivere alla nebbia e a quella pioggia di ricordi ormai asciugata da tutto quello che non c’è più.

Prete, prepara la chiesa per il funerale…

… ricordati, però, che l’assemblea non è costituita esclusivamente da bigotti bisognosi dell’aspersione; di quel goccio d’acqua santa che rende immacolate le coscienze.

Ma soprattutto: prova a dirlo vis-a-vis, che questo è un momento gioioso.
Prova a dirlo ad un figlio.
E’ facile parlare dal pulpito. Estremamente facile.

Ascoltaci, o Signore.

“Tu sei con me, Signore. Non temo alcun male”.

“Perché nessuno ci vuole bene quanto Dio, nemmeno la mamma e il papà”.

Ed è stato quello il momento preciso in cui ho sentito ardere qualcosa nel mio corpo. Credo fosse la bile.

“In fondo, tutto ciò che facciamo qui è precario. Ci prepariamo alla gioia. La vera gioia che c’è dopo la morte. Dobbiamo essere felici, invece, perché alla fine ci ritroveremo TUTTI nella casa del Padre”.

E ci staremo TUTTI, già. Perché a voi hanno condonato anche l’anima. E magari giocheremo a briscola chiamata.

Ti chiedo una cosa: quando un giorno non ci sarai più, chi mi straccerà schiacciando sul tavolo l’asso di spade?
Dimmelo, pa’, ti prego. Adesso posso ascoltarti. Dimmelo ora, perché quel giorno sarò troppo impegnato ad essere felice per la tua morte.

Scale

Lei mi ha spiegato, con qualche difficoltà (mea culpa), che quelle maggiori son le più semplici.
tono-tono-semitono-tono-tono-tono-semitono.

E’ una faccenda rigorosa, voglio dire, non puoi sbagliare.
E vanno così. Da secoli. Non cambiano. Le scale son quelle. Le note? Pure.

Però puoi comporre quello che ti pare. Dove ti pare. Con chi ti pare.
E allora, oggi, penso che la musica sia una bella illusione. La più dolce. Come la vita, del resto.
Quella stessa fottuta vita che ti vortica intorno, che ti ronza nelle orecchie, che ti dà i pugni proprio lì, all’altezza dello sfintere pilorico.

Siamo sempre noi e saranno sempre loro. Mai nulla cambierà. Eppure avrai, a tratti, l’illusione di vivere qualcosa di diverso, tra una nota e l’altra, di trovare un respiro migliore, tra un tono ed un semitono. Fra una pausa e l’altra.

Però sai anche che, ad un certo punto, qualsiasi strumentista smette di suonare e le note tornano ad essere quelle.
E le scale? Le scale pure.
tono-tono-semitono-tono-tono-tono-semitono.