Come piace(va) a me.

Credo ci sia ancora qualcosa da dire.
Ti chiedo, quindi, di ritagliarti un po’ di tempo.

Dopo una cruda e nuda chiacchierata, ho bisogno di capire che cosa cazzo stai provando e che cosa vuoi, ancora, da me.

Arrivi tardi. Ecco il trillo. Rispondo. Il cammino è in discesa, penso, sarà più facile lasciarti andare via, non potendo guardare i tuoi occhi.
Tu, non so come, riesci a vedere me e so che mi vedi tremendamente alterato.

Ciao, posso capire che cosa vuoi? (Mi risponderai qualche tempo dopo: “Non voglio niente”, con quell’aria di chi la sa lunga, di chi è navigato; è un’aria che, però, non ti appartiene.)

Rigiro tra le mani un bicchiere, mentre singhiozzo, ti canto pezzi di canzoni che sono adatte al momento.
Ma poi, e nemmeno ricordo il motivo, a un certo punto mi va il sangue alla testa, inizio a piangere, quasi a urlare, mi alzo dalla sedia e cado. Cado rovinosamente, voglio dire, perdo i sensi per un attimo e tu sei lì, a pensare chissà che cosa, dopo aver sentito il tonfo, appesa a una cornetta invisibile.

Mi riprendo, guardo quel fottuto bicchiere di whiskey (che, da allora, non bevo più), vado a vomitare anche l’anima e poi ti chiamo.

***

Ho sempre detestato gli strascichi.