Venerdì giovane

Bevo qualcosa per festeggiare il compleanno di un amico.
Passeggio per le vie del centro, cercando di sorridere ai passanti, a chi non cede il passo, a chi pensa che ci sia ancora qualcosa da dire, a qualche interlocutrice occasionale.

L’aria è buona. È una bella serata, nulla da eccepire.
“Auguri, ragazzo!”
“Come, come?”, interviene uno sconosciuto “è il tuo compleanno?”
“Sì, trent’anni!”
“Auguri!!!”

Nessun coro -qualcuno ce ne scampi e liberi- e “buonanotte, ci si vede domani sera, e se ricapiti per il centro si fa un aperitivo prima della cena.”
“Va bene, a domani.”

Torno verso la guinness-mobile, accendo l’ultima sigaretta e resto a rimirare le mura e la bellezza, un po’ soffocata, di questa città (ripenso anche alle parole non gentili spese per il nostro “amato” sindaco, nel frattempo).

Sto per buttare la cicca quando, ad un certo punto, mi sembra di riconoscere un ragazzo.
“Ma sì, cazzo, è Beppe!”.
Muove passi incerti, il ragazzo, perché è visibilmente “fatto”. Anzi, no, “stra-fatto”.

“Beppe! Ma come minchia ti sei ridotto?!”
“Perché, si vede?”
“Nooooooooooooo. Certo che si vede! Dove stai andando?”
“A casa, a piedi, ma fin laggiù io non ci arrivo…”
“Vieni, sali in macchina, rincoglionito!”
“Ma davvero si vede che non mi reggo in piedi?”
“Certo che si vede che non ti reggi in piedi!”
“Oddio, e adesso come faccio a rientrare in casa?”
“Con le chiavi, Beppe.”
“Non ce le ho! Che cosa dico a mia madre?”

Resto in silenzio. Ripenso ai miei diciotto anni. Ripenso alle prime sere alla Public.
Sono certo di non essermi mai ridotto in quello stato. All’epoca no, ne sono sicuro.

“Beppe, non sono tuo padre, ma cazzo! Non puoi ridurti così!”
“Eh, lo so, hai ragione, ma il sabato è così!”
“No, Beppe, è venerdì.”
“Ah, giusto”.

Arrivo sotto casa sua. Aspetto che scenda. Verifico che riesca a mettere insieme i propri passi e dopo riparto.
Riparto, ma penso che, in tutto questo, ci sia qualcosa di profondamente sbagliato.

Sul muro di una casa abbandonata

Febbre e nervi scoperti. Sono al freddo. Sono vulnerabile, come un fianco lacerato, nudo, al sole di una primavera insipida e ancora tagliente.
L’ombra gelida, eterna compagna, vorrebbe consolarmi, mentre mi crogiolo in un dolore senza memoria.
Rido, tossisco, bevo, e lascio che l’ennesima sigaretta raschi il fondo della mia gola in fiamme e del mio torace dolorante.
Guardo note e ascolto spartiti che non sanno dirmi molto, in questo frangente.
Questo dolore è un’illusione. Voglio che ci sia, ma in realtà non c’è.
È il corpo che mi limita; forse dovrei sbarazzarmene.

La casa è abbandonata da poco tempo. Forse è riuscito davvero a sbarazzarsi del suo corpo.

Il primo bacio

Oggi… qualche anno fa.

Dicevo.
È sicuramente come scrive lui nel commento al mio post precedente, ma c’è dell’altro; un altro motivo, che mi porta a pensare che la musica non stia facendo il proprio dovere.

Mi chiedo perché le persone arrivino con brani, citazioni, note che, in questo momento, non vorrei ascoltare nemmeno a basso volume e nemmeno da un’altra stanza. O da un’altra città. O da un altro pianeta.

Ecco, non mi era mai capitato. Non mi era mai capitato di non avere il pieno controllo del pulsante “off” e, naturalmente, anche del pulsante “on”.

Basta, per favore. Lo dico per voi, mica per me.
Lo dico per voi, perché potrei incenerire i vostri ai-qualcosa e le vostre belle autoradio.

Lui, lui, l’altra.

[…]”Anche io trovo che la sincerità sia una qualità apprezzabile. Apprezzabilissima.
Chiesi al mio compagno di promettermi di non raccontarmi mai bugie.”
“L’ha fatto? Voglio dire, ha promesso e poi mantenuto?”
“Sì, ma poi aveva iniziato ad omettere, naturalmente. E allora non so più se sia stata una bella idea, la mia. Oddio, avrei dovuto aspettarmelo, sai?”[…]”Io ero così giovane. Sono arrivato vergine al matrimonio. Non tanto per un discorso religioso, quanto perché era una cosa alla quale tenevo moltissimo: mi sembrava potesse essere un dono meraviglioso. Soprattutto per lui. Ero molto innamorato. Non so se mi capisci.”
“Non proprio.”
“Ti dicevo… E insomma io ero così giovane e lui un eterosessuale convinto, più grande di me, e aveva avuto donne bellissime. Ecco, io avevo messo in conto che lui potesse… Era un uomo davvero affascinante.”
“Capisco.”
“Però, per più di quarant’anni sono stato un uomo felice.”
“E le bugie?”
“Sai, quando una persona arriva a mentire è perché vuole proteggere l’altro, quello in più. E vuole farlo perché è diventato l’elemento più importante.”
“Me lo rispieghi, per favore?”
“Voglio dire: se arrivo a mentire o ad omettere per proteggere un altro, vuol dire che quell’altro è più importante di te che sei, ora, davanti a me.”
“Forse ora ho capito e sono d’accordo.”
“Lui, però, in punto di morte, mi raccontò ogni cosa. Pensava che in casa vivessero tante persone. Mi parlava come se fossi una sorella, o una cuoca, o la madre… e mi diceva: “Non raccontarlo a * perché ne soffrirebbe”. Ed io ero lì, immobile, con le lacrime agli occhi e annuivo, mentre gli tenevo la mano.”[…]

* al Nomade – 22 febbraio 2012

KI

Un timbro, un ricordo, facce conosciute.
Qualcuno direbbe anche: “Strani segnali”.

No, bimba, non ho commesso un errore.
“Sei mai stato fidanzato?”
Il sorriso si fa beffardo, poi ironico ed infine irriverente.
“Sì, diverse volte.”
“Scusa, perché ridi?”
“No, così, trovo che sia del tutto irrilevante.”
“Ma te lo chiedo come ti chiederei che musica ti piace, o cose così”.

La notte sta quasi per scomparire, ed io mi ritrovo a pensare che no, non sono cose così, e che davvero non c’entrano niente col nomade che sta respirando in quel momento.

Un timbro, un ricordo, facce conosciute.
Qualcuno direbbe anche: “Strani segnali”.

A te, che, invece, non ti sei fermata per qualche secondo, avrei voluto dire semplicemente “buona vita”, perché incontrarti lì è stato assurdo ed il tuo sorriso mi ha ricordato centinaia di passi e di minuti e di momenti poco sereni.

La notte sta quasi per scomparire, ed io mi ritrovo a pensare ad un mondo che no, non è più qui, ad un mondo che non si arresterà, se non nel collasso del mix di alcolici che mi stanno tenendo leggero. Mi sembra quasi di galleggiare.

E poi mi torna in mente una canzone, mentre mi sorprendo a farmi dare lezioni di vita da una persona che non avrei mai immaginato di incontrare. Una bimba schietta, tagliente, che, domande a parte, qualcosa del nomade ha colto.

Campania-Sardegna A.R.

Mi ritrovo ad ascoltare un dialogo in campano stretto.
Una magia vuole che io capisca ogni singola parola.

(Traduco)

“Così, la settimana scorsa sei stato in Sardegna, eh?”
“Sì, ma ero così stanco che non sono riuscito a partire di domenica. Ho mangiato, mi sono fatto una doccia e poi mi sono addormentato. Sono partito lunedì.”
“Vabbè, avrai guadagnato qualcosa in più, o no?”
“Sì, cento euro. Non male.”
“Ma non sei convinto?”
“Non è che non sono convinto, è che mio figlio non vuole parlarmi più”.

A quel punto mi si gela il sangue…

“Ero al telefono con mia moglie e mio figlio le ha detto che non voleva parlare con quello… È come se al telefono fossi un altro…”

È anche questa la vita degli autotrasportatori.
E per me, un dialogo del genere vale più di mille Monti, più di mille sentenze contro Eternit, più di mille altre parole.

Laboratori antropologici

Dopo anni, mi ritrovo sul treno.
Eccola lì, davanti a me: una nutrita schiera di esseri umani; di varia umanità (per rubare un tag caro allo Scorfano).

L’arabo si siede, ed inizia a scrivere. Da destra verso sinistra.
Sorride, guarda fuori dal finestrino, guarda la ragazza seduta di fianco a me, una certa Lady Oriente, e torna a scrivere. Da destra verso sinistra.

Arriva, tutto accaldato, un ragazzo nervoso. Si siede, batte il tempo di una tarantella immaginaria, e scrive un messaggio. Batte freneticamente i tasti del telefono, e lo fa seguendo il tempo scandito dal piede.
Poi fa una cosa che mi sconvolge: tira fuori dalla tasca “Il cavaliere inesistente”, e si mette a leggere.

In quarta fila, una badante (che poi non so se davvero sia una badante, intendiamoci) prende il cellulare, fa una telefonata ed inizia a parlare a voce altissima. Sghignazza, poi si placa, infine chiude e resta lì, con un sorriso un po’ ebete, a guardare gli altri umani che finiscono di riempire la carrozza.

Là in fondo, invece, una moltitudine di capelli mossi aggredisce la settimana enigmistica (dovrei scriverlo tra virgolette?).
Scambia alcune parole con un’amica, tra sorrisi divertiti ed altri gesti smaliziati.

Ma i pezzi migliori sono seduti proprio qui, vicini a me.
C’è l’uomo apple, per esempio, che non pago dell’ai-fono, tira fuori l’ai-poddo, ed una cuffia troppo seria (di quelle che riducono i rumori ambientali).
Ha gli occhi rossi ed una cravatta blu, su un gessato senza troppe pretese.

Ecco ancora, di fianco a lui, un personaggio stanco: occhiali di qualche anno fa, uno spezzato vecchio, esausto, ed una capigliatura da venerdì sera.
Vorrei chiedergli: “Te ne fotte ancora qualcosa della vita?”, ma sono troppo impegnato a fotografare tutto.

Mi siedo dando le spalle a ciò che arriva, come ho sempre fatto, e guardo ciò che sto lasciando.
“Sarà un bel post” mi dico “di quelli di qualche anno fa”.

Ma poi il nokia dell’arabo inizia a squillare, sulle note di “Sogno d’amore”.
Eccheccazzo.

Quanto sono buoni -a modo loro-

Dopo aver letto questo post dello Scorfano, ho ripensato ad una cosa veramente piccola, ch’è mi è capitata qualche settimana fa.

Ero in via Guido Monaco, comodamente seduto, e stavo aggredendo il kebab più buono del mondo.
Vicini a me si erano seduti due giovani ragazzi.

Uno: “… e insomma, vorrei iscrivermi a questi corsi per fare pronto soccorso”
L’altro: “Ah! E dove li fanno?”

(Nel frattempo ascoltavo e pensavo: “Ma bravo ‘sto citto(*)! Allora un sono tutti ceppi(**)!”)

Uno: “Mah, sono organizzati -in Arezzo (n.d.n.)- dalla Croce Rossa, dalla Misericordia e dalla Croce Bianca”
L’altro: “E tu dove vuoi andare?”
Uno: “Dice che quelli della Croce Rossa ti preparano meglio”
L’altro: “Ma che ti frega, tanto mica ti pagano, vai dove capita!”
Uno: “Non è un discorso di soldi. Ci tengo davvero, dato che non so niente di pronto soccorso. Mi sembra una cosa carina!”

(“Ma bravo citto! Ora mi alzo e gli stringo la mano!”)

Uno: “Solo che devo decidere in fretta, perché tra un po’ iniziano”
L’altro: “Ma non hai un’idea?”
Uno: “Una è la Croce Rossa e l’altra la Misericordia, ma non so. La Croce Rossa è meglio…”
L’altro: “Ma?”
Uno: “Eh, ma la Misericordia è pien de fica”

(*) Ragazzo
(**) Stupidi

Quanto sono buoni -a modo loro-

Dopo aver letto questo post dello Scorfano, ho ripensato ad una cosa veramente piccola, ch’è mi è capitata qualche settimana fa.

Ero in via Guido Monaco, comodamente seduto, e stavo aggredendo il kebab più buono del mondo.
Vicini a me si erano seduti due giovani ragazzi.

Uno: “… e insomma, vorrei iscrivermi a questi corsi per fare pronto soccorso”
L’altro: “Ah! E dove li fanno?”

(Nel frattempo ascoltavo e pensavo: “Ma bravo ‘sto citto(*)! Allora un sono tutti ceppi(**)!”)

Uno: “Mah, sono organizzati -in Arezzo (n.d.n.)- dalla Croce Rossa, dalla Misericordia e dalla Croce Bianca”
L’altro: “E tu dove vuoi andare?”
Uno: “Dice che quelli della Croce Rossa ti preparano meglio”
L’altro: “Ma che ti frega, tanto mica ti pagano, vai dove capita!”
Uno: “Non è un discorso di soldi. Ci tengo davvero, dato che non so niente di pronto soccorso. Mi sembra una cosa carina!”

(“Ma bravo citto! Ora mi alzo e gli stringo la mano!”)

Uno: “Solo che devo decidere in fretta, perché tra un po’ iniziano”
L’altro: “Ma non hai un’idea?”
Uno: “Una è la Croce Rossa e l’altra la Misericordia, ma non so. La Croce Rossa è meglio…”
L’altro: “Ma?”
Uno: “Eh, ma la Misericordia è pien de fica”

(*) Ragazzo
(**) Stupidi

Stefano Lavori e l’Avvocato

E va bene: appresa la notizia della morte di Jobs, gli occhi sono diventati un po’ lucidi.

Non nascondo la mia stima nei confronti di un uomo che:
1) ha avuto un’idea (anche se è una mela stilizzata, con un morso stilizzato, ma è pur sempre un’idea)
2) ha vestito la sua idea in modo pazzesco, per vestire meglio se stesso e vendersi (e, detta proprio così, per fare il culo a tutti gli altri)
3) si è trovato proprio lì, nel posto giusto, anche se non sempre al momento giusto.
Già.

Qualche giorno fa, invece, il post di un Avvocato mi aveva letteralmente spezzato; ricordo bene le mie lacrime: naturali, fluide e vivaci; è stato un bel pianto.
Ho provato uno strano dolore per loro due; un dolore che conserverò a lungo (per tutta una serie di motivi, che non riesco a spiegare in modo limpido e razionale).

Ma oggi, dopo aver letto opinioni, commenti e messaggi folli (a proposito della morte di Jobs), mi chiedo: dove finisce la stima e dove inizia l’affetto delle persone? Perché il mio sentire non riesce a giustificare tutte quelle lacrime e quella disperazione? Perché sono infastidito?
No so davvero. Forse un i-qualcosa, un giorno, sarà in grado di fornirci un’esatta misura di quella distanza, di quel confine così giusto; forse un i-qualcosa, un giorno, ci dirà che è tutto normale, che è giusto essere sempre folli ed affamati, che questo è il mondo che abbiamo sempre sognato; con un cazzo di morso stilizzato, ma è pur sempre il mondo che abbiamo sognato.
(Quel giorno, però, porrò fine alla mia esistenza.)

Un abbraccio a Marco.