Rischiare la vita è una cosa dannatamente poetica, tanto poetica da essere anche un dannato cliché. Pensate ai film, alle opere letterarie e, quindi, ai vostri eroi e antieroi, che rischiano la vita. Pensate bene a quello che riesce a fare l’Autore (se è uno bravo, ovviamente). Siete lì, incollati allo schermo o alla pagina giusta e… il vostro beniamino rischia di lasciarvi, per sempre.
Rischiare la vita, essere sul punto di morire.
No, non c’è poesia. Davanti agli occhi non passa un cazzo di film, ché la vita è già lì, alle tue spalle, che ti sta salutando.
Il 5 di luglio io non ho visto alcun film. Ho visto nero (il proverbiale “nero più nero della pece”), ho sentito, nelle orecchie e sulla pelle, un grande schianto. Nessun fottuto film.
E poi -ah, la poesia- ho riaperto gli occhi e il cielo era sopra di me. Blu.
Voglio credere che il fatto di aver rischiato la pelle sia qualcosa di più che “Nero! Bum! Blu!”, senza, però, dover ricorrere a quelle religiose fantasie che tanto vanno di moda, che tanto fanno pensare e gridare al miracolo.
Dopo quasi quattro mesi sono più o meno a posto, con un osso fuori asse (ah, mia amata clavicola) e altre fratture in fase di guarigione.
Se stai leggendo questo articolo e sei un centauro, fammi un favore: usa sempre il casco, anche per percorrere cento metri. E non fare l’asino, che magari, tra qualche mese, ci si rivede su Via Maggio.