Mamma!

– Mamma! Stasera esco!

Mi ricordo quando, la prima volta, qualche anno fa (e forse sarebbe meglio iniziare a contare in decenni, ché i lustri sembrano di più), dissi a mia madre che sarei uscito con una ragazza.

Oggi sorrido e mi chiedo: perché diavolo avrei dovuto dire a mia madre una cosa del genere?
Mamma! Stasera esco, e ritorno ragazzino (con il pizzetto imbiancato, ma quella è un’altra faccenda)!

Salute a tutti!

Il mio racconto

(deliri propedeutici alla sua buona riuscita. Del racconto, intendo)

Sei lì e pensi ancora di voler difendere la tua indifendibile posizione ascetica.
Ci sono un sacco di chiacchiere, nel mezzo, e discorsi legati alla rabbia, e parole legate all’onore.
Cambiamenti.

Stanotte eri in cerca del Grande Carro.
Chissà per chi, chissà per cosa.

È ora di spegnere tutto, credimi, soprattutto i sensi, altrimenti potrebbe crollare il tuo ultimo baluardo. Non stai bene, così?

Ecco, da bravo, vai a farti una doccia fredda e poi fracassati le ossa nel letto.
Al racconto ci penserai domani.

The curse of Ayman

Vieni a lavorare con noi. Walid parla bene di te.
Proviamo, dice quello. Proviamo, dico io.
Ok, non ci troviamo, ma per fortuna non lavori nella mia squadra.
Proviamo fuori, magari durante una serata tra amici. Magari senza pensare alle gerarchie, agli ordini, ai doveri.
No. Anche fuori da lì, è inutile, mi stai sul cazzo. E te lo dico, perché sono fatto così.

Esiste una cosa, tuttavia, sulla quale andiamo d’accordo: il cinema.
Non puoi saperlo, naturalmente, ma seguo i tuoi consigli fin dall’inizio dei nostri scambi. Perché non riesco a dirtelo? È poca cosa, certo, ma è pur sempre qualcosa.

Ti vedo sorridere un paio di volte. Ti vedo ridere, di gusto, una sola volta.
Non cerco mai una spiegazione al tuo atteggiamento strafottente, davvero, perché in fondo ognuno di noi è fatto in un certo modo, e vivi e lascia vivere, e tutte queste minchiate qui.
Walid non sta bene, lo ammorbi con la tua negatività, e riesci a trattare male una delle mie più care amiche.

A volte penso: “Ayman fuori da qui!” A volte: “Ma no, forse è meglio credere ai suoi alibi. In fondo è il suo primo lavoro, in fondo ha solo venticinque anni. Capirà. Crescerà. Imparerà.”

Ti mandano via, infine, perché alcuni colleghi sono esasperati e, non a torto, pensano che tu non sia in grado di sfruttare un’occasione, come invece ha fatto il tuo amico Walid.
Fine dei giochi.

Oggi, invece, voglio raccontarti che cosa è successo dopo.
Dopo la tua partenza, molte cose hanno smesso di funzionare. Abbiamo vissuto mesi allucinanti, alla ricerca delle cause di questo o quel disservizio. Abbiam più volte ripetuto, scherzando, che è stata la maledizione di Aymano ad averci colpito.
Ogni tanto ho chiesto di te a Walid.
Ho saputo che sei tornato in Tunisia e che qualche giorno fa sei morto in un incidente stradale.

Una bozza

Mi godo la nuova testata, e l’ennesima fotografia scattata alla luna.
Ci sono ancora un paio di cose da affrontare, ma tra qualche minuto potrò spegnere tutto e chiudere gli occhi.
Apro il mio client di posta, rispondo ad un paio di mail, e rileggo la bozza di una lettera; non so se la invierò, ma intanto è lì.
Il tempo è giunto.
Buonanotte, gente.

Flash

“Penso che insieme siano bellissimi.”
“Ma chi, Andrea e Stefano?”
“Deh, ma sei ‘gnorante forte. Ma no! Andrea ed Eliana!”
Mi avvicino a Eliana: “Credo che Stefano stia insidiando il tu’ omo. Io te lo di’o, poi te tu fa’ quel che ti pare, eh!”

Il pianista attacca. Male, ma attacca, partendo con Dalla. Ok, Lucio, ma perché proprio questa sera?
Poi Morandi. Mh. Mah. Boh. Infine Paoli.

“Ecco, se ora ne canta una di Zarrillo (e la curva sarebbe perfetta), mi faccio direttamente in vena.”
In trenta minuti, la platea non fa altro che gridare il mio nome.
“No, ragazze, non sono in vena. Sto mangiando, bevendo e fumando in santa pace. Su, lasciatemi stare.”

MG mi prende alle spalle: “Ti prego, vai a cantare tu. Ti prego.”
Guardo il buon PP e gli chiedo: “Che cosa ne dici, mi sono fatto desiderare abbastanza?”
Flash. (Ma è passato e non ha senso tirarlo in ballo in questo momento)
Un’amica incalza: “Dai, fatti sentire, tutti dicono che hai una bella voce.”

Mi alzo, prendo il microfono, e dedico una canzone agli ometti seduti lì. Perché loro potranno dedicarla alla donna che amano.
Flash.

Mi commuovo, ma gli occhi non diventano lucidi. Non piango più, avrebbe cantato Rouge.
Flash.

Ogni volta è un aneddoto, tra una nota, una parola, una sigaretta e un respiro profondo.
“Grazie. Vorrei baciarti, ma tu non vuoi…”
“Bè, dai, forse in un’altra vita. E comunque non l’ho dedicata a te.”
“Sì, no, lo so, però l’ho sentita parecchio.”

Faccio un gesto strano, che significa, più o meno, “ok, adesso lasciami in pace.”
Riprendo in mano il bicchiere, guardo dritto davanti a me, accendo un’altra sigaretta.
Flash.

La cena sta per finire, la musica anche.
“Bravo davvero!”
“E grazie, anni e anni d’esperienza sotto la doccia…”
“No, dico sul serio!”
“Anch’io.”

Buonanotte e baci e il tempo delle cattedrali che crolla, insieme alla luna nel cielo.
“Ma no, che pirla, non è mica crollata, si è soltanto girata dall’altra parte.”
Flash.

Fa Sol La

Fa

Ideali

– Isabel, ti posso dire una cosa in confidenza?
L’uomo si passò un fazzoletto sulla fronte. Sudava.
– La Coca-Cola e il McDonald’s non hanno mai portato nessuno ad
Auschwitz, in quei campi di sterminio di cui a scuola ti avranno parlato,
invece gli ideali sì, ci avevi mai pensato, Isabel?
– Ma quelli erano nazisti, obiettò Isabella, gente orribile.
– Perfettamente d’accordo, disse l’uomo, i nazisti erano gente davvero
orribile, ma anche loro avevano un ideale e facevano la guerra per imporlo,
dal nostro punto di vista era un ideale perverso, ma dal loro no, in
quell’ideale avevano una grande fede, agli ideali bisogna starci attenti, che
ne dici, Isabel?
– Ci devo pensare, rispose la ragazzina, magari ci penserò a pranzo, sono
le dodici e mezzo, fra poco servono il pranzo, tu non vieni?

Avevo deciso da tempo di abbandonare alcuni ideali. Decisione non buona.
Non devo abbandonarli, devo solo starci attento, ed evitare di portare qualcuno ad Auschwitz, naturalmente.
E grazie a Tabucchi per il suo “Nuvole”, un racconto che mi ha piacevolmente colpito.

Sol

Calma e gesso

-Tu sei un cretino e non capisci un cazzo!
-Prego?
-Sì, sei uno stupido, hai anche gli orecchini!
-Quindi? Si dia una calmata, per cortesia, e mi spieghi che cosa è successo. Tra l’altro non mi sembra il caso di mettersi a berciare(*).
-Ma io ti faccio causa e me ne vado, perché non capisci un cazzo! Vuoi chiamare i carabinieri? Li chiamo io i carabinieri! Io vi denuncio e vi chiedo i danni!

Bestemmie, collera, minacce, ma io resto lì, fermo, davanti a quel cliente. Resto lì impassibile, privo di qualsiasi istinto omicida. Penso “toccami e sei morto”, ma non c’è davvero nulla di premeditato. Lo accompagno gentilmente alla porta, come non avrei mai fatto in vita mia (forse in una vita precedente, non so) e torno nel mio ufficio, sorridendo.

-Ruggero! Qualche anno fa l’avresti caricato di botte!
-E che ci vuoi fare, Saurinho? Mi sono calmato. A volte mi faccio paura da solo.

La

Un pezzo di te

I mesi estivi scorrevano velocissimi. Dall’alba al tramonto non c’era un attimo per fermarsi, neanche un attimo per evitare quella calura così tipicamente pugliese, e nemmeno un attimo per evitare di respirare salsedine e arsura della terra.
Di centoventisette ce n’erano tantissime, di palloni incastrati sotto le marmitte, pure.
A volte, i cofani roventi erano ricoperti di carte napoletane.
Sui marciapiedi, le sedie impagliate sostenevano anziani con la pelle divorata dal sole.
Insieme a loro, i ragazzini imparavano a giocare al “mediatore”, e a gridare “Acceit! Sopacceit!”(**) o a dire, sommessamente, “m’arress”(***).
Tufo e ceramica, tutt’intorno, e lastricati perennemente umidi, perché le donne del posto li inondavano d’acqua.
“Nonna, a che serve?” “P’addfrschell, Rggì, c’amman u calt”(****).

Negli occhi dei contadini leggevi la musica delle cicale, che in campagna non facevano altro che cantare, comodamente appoggiate a quella distesa di ulivi che, a guardarla, faceva quasi impressione.
Alle quattro del pomeriggio la città si spegneva; in strada restavano a giocare a pallone solo i maschietti, mentre le femminucce rientravano e si mettevano a seguire madri e nonne e le loro stramaledette pulizie di casa.

Pensavo al mare e alle buche che avrei scavato il giorno dopo, e alle buche che avrei scavato, in quella sabbia paradossalmente fredda, durante la notte, all’ombra di chiacchiere adulte, con lo sguardo perso tra gli occhi e le trecce di una ragazzina bionda che ora chissà come sta e dove e perché.
E mentre scavavo pensavo “alle ville” (altro non sono che i giardini pubblici), tra la piazza della stazione e il fossato del castello. E poi di nuovo in riva al mare, per respirarne la sua magnificenza, il suo mistero, il suo essere infinito.

E oggi scavo, senza una vera ragione, senza sapere che cosa riuscirò a trovare, pensando a quel che resta della mia terra.

(*) Urlare in modo sguaiato
(**) Uccido e “soprauccido”. Nel gioco del mediatore (simile alla briscola), il primo a mettere carta in terra decide il segno della mano. Chi tira di briscola, se non ha carte del seme imposto, uccide. E se pija tutto er cucuzzaro.
(***) Dichiaro di voler giocare la briscola. (Gioco sicuro.)
(****) “Per rinfrescarli, Ruggero, perché fa caldo”.

Via Larga, 19/bis

No, non esiste il civico /bis.
E allora? Allora non vi ho raccontato tutto.
Come?! No, non ho conquistato il cuore della cameriera.
Quindi… No, nemmeno quello della mia amica E.

Prima di giungere in via Larga (19, senza il bis), siamo passati da quella piazza lì (quella del Duomo, per intenderci).
E. mi ha guardato (quasi)sconvolta: “La senti questa musica? Ma… non sarà mica Max?!?”
Ebbene sì, signori miei: lì, a pochi metri da noi, c’era Max Pezzali con la piccola orchestra di Radio Italia.

Diciamo le cose come stanno: io impazzivo per le cassettine gialle e rosse degli 883, ma non ho mai potuto ascoltarli dal vivo.

E così ho abbracciato E., e sulle note di “Come mai” mi sono commosso.

Che pirla.

Anima salva

Un paio di mesi fa pensavo al giorno della tua dipartita.
Ci pensavo perché era vicino il funesto anniversario.
Ci pensavo perché non ti conoscevo, ma quella sera lei, piangendo e raccontandomi a fatica di te, mi diede un pugno allo stomaco.
Ci pensavo perché ti dedicò una canzone che amo follemente.
Ci pensavo perché anche tu sei, ancora oggi, tra le persone alle quali ha dedicato un intero lavoro.
Ci pensavo perché, forse, senza la montagna e senza quella tristezza, le cose sarebbero andate un po’ meglio per tutti.

Eravamo legati entrambi ad una donna, per ragioni diverse, certo, ma pur sempre collegati da un invisibile filo.
E se quel filo adesso non c’è più, resta ancora una cosa a legarci: l’ineluttabilità del destino.