Tra una tesi e l’altra

Non so, esattamente, come mi sia balenata per la testa l’idea di usare quell’orribile carattere per i titoli dei miei articoli; sta di fatto che non riesco a eliminarlo. [AGGIORNAMENTO: sono riuscito a eliminarlo.]
La cosa più grave è che, il 99% delle volte, non mostra nemmeno i miei amati segni di interpunzione. E che cazzo punto
Va detto, inoltre, che la mia pigrizia mi impedisce di cercare aiuto su google.
“Non devi immaginare, devi fare search” (Stefano docet).
E chi cazzo è Stefano? Vabbè, è un amico. Voi lo sapete che noi terroni ci teniamo assai al nome di battesimo; potrei scrivere un articolo solo su questo, in effetti.
E invece no.

Passavo di qui, per dare un’occhiata alle macerie delle mie idee (brevi periodi, lettere piene di lacrime e frasi sospese tra il grottesco e il tragicomico).

Che cosa è successo nel frattempo?
Nel frattempo ho lasciato la Toscana e sono tornato a Roma.
Nel frattempo ho cambiato lavoro, ho ricomprato la moto e ho iniziato un nuovo viaggio.
Nel frattempo mi sono abbuffato di concerti: Battiato, Silvestri, Silvestri, Silvestri, Silvestri, Silvestri, Gazzè, Fabi, Lady Gaga e Tony Bennett, David Gilmour, Otto Ohm e tra qualche mese i Depeche e di nuovo Silvestri e ancora Gazzè.
E tanti altri ancora, primaduranteedopo.
Nel frattempo ho rivisto la mia vecchia casa, rivisto facce che non avrei voluto rivedere, sentito cose che, mio malgrado, ho dovuto ascoltare.

Gli anni passano e risulta sempre più difficile riprendersi dopo un viaggio.
Così, lascio che sia la mia testa ad andare (che è andata “da mò”, ma va bene così).

E nel frattempo, mentre scrivo velocemente al mio portatile, un’altra persona sta scrivendo la propria tesi, mentre io faccio le mie ipotesi e mentre Battiato risuona nella testa, durante la lettura di altri blog e la scrittura di questa ennesima inutilità.

Bisous.

Dall’altra parte della sera

Ai piedi della scalinata c’è un chioschetto: è lì che dovrò lasciare metà dei miei sogni.
Mi muovo a fatica verso la meta, mentre ancora risuona l’eco delle canzoni di Patti Smith.

Because the night belongs to lovers.
“Ecco, questa è una delle sue canzoni più famose.”
“Ah, ok.”
Muoviamo in fretta i nostri passi e ci allontaniamo, mentre l’effetto Doppler fa tutto il resto: distorce, allontana e rende innocua una malinconica ironia.

I ricordi svaniscono e mi ritrovo nel classico trambusto pre concerto.

“Ciao, sei in coda per i biglietti? Ne avrei uno in più.”
“Sì. Dai, te lo compro.”
“Grazie. Sai, lei non mi ha raggiunto…”
“Capisco.”

Penso alle volte in cui ho lanciato la mia malcelata tristezza addosso a perfetti sconosciuti. Troppe, forse. Mi ridesto.

“Grazie di nuovo e scusami.”
“Figurati, grazie a te.”

Mi tuffo nella mischia e mi avvicino il più possibile al palco.
Finalmente ti ascolto dal vivo, poeta chiacchierato. Finalmente posso guardarti negli occhi, mentre mi racconti le tue storie. E mentre lei non c’è.

Si spengono le luci e una piccola lampada inizia a dondolare.

E tu non potevi saperlo, ma dopo qualche giorno ti avrei regalato un orsetto viola. Chissà se lo tieni ancora con te. Chissà.

A a a aaaarticolo tre tre tre trentuno

– Torniamo a casa, dai.

Ci aspettano ancora svariati chilometri, tutti da percorrere a settanta all’ora.
Al diavolo l’autostrada, questa non è serata da AC/DC. Facciamo un’altra volta, eh?

– Devo ricaricare il mio iPhone.
– Va bene, ma la musica la scelgo io.

Tra i vari album, intercetto “Strade di città”.
Mi luccicano gli occhi. Tornare ai primi anni novanta, in tre secondi netti, è una cosa che mi fa sempre effetto.
È tutto lì in un attimo: il gazzettino della classe, la nostra inviata in miniatura, il nostro caporedattore in erba e i nostri grafici muniti di stampanti casalinghe, rigorosamente ad aghi (le stampanti, non i grafici). Infine il mio pezzo sull’album.

Guardo le passeggere e sorrido. Chissà dove cazzo è andato a finire quell’articoletto.
Strade di città. Della mia città.
È buffo, ma questa non è più la mia città. È buffo, poi, che lo ripeta così spesso.

– No, ma dai, gli Articolo 31 no!
Però le parole fluiscono senza intoppi e scivolano veloci (come la mano di Jad) dalle nostre bocche, come se quell’album l’avessimo ascoltato il giorno prima. Come se non fossero passati già vent’anni.

Così torno a casa, e mi riservo il tempo giusto per importare i cd nella mia libreria.
Strade di città, Messa di Vespiri e Così com’è.
Basta così, dico. Quella musica è un’altra cosa che ho perso. Che mi è scivolata. Che mi è caduta.
I ricordi, però, sono sempre lì. Quelli non cadono mai e, a volte, ad uno ad uno salgono e mi tormentano.

Da solo.

Tutto appare e suona come nuovo, compreso il silenzio prodotto dalle file d’alberi cupi, che si parano davanti a questo piccolo appartamento. Interpreto questa novità come una sorta di muro sonoro silente, sul quale il tempo ode, ben chiare, le nostre parole.

Eppure mi ritrovo da solo, a misurare distanze ancora sconosciute, accompagnato dalla foschia di un novembre affumicato.
Scendo spesso in strada a fotografare la luna, per dedicartela.
Poi penso che vorrei regalartela, la luna, anche se non me l’hai chiesta.
Alla fine di questo anno di cambiamenti ci sei tu, dall’altra parte della sera, ed è tutto così strano, perché non sono innamorato di te, ma sei ormai il mio quotidiano, nell’attesa, nella lontananza, nelle gioie dei piccoli traguardi e nella tensione delle nuove partenze.

È un album molto invernale, mi dici. Lo ascolto e quella sensazione sale precisa a prendermi prima lo stomaco, poi la gola e infine il cervello. Fumo, rigirando tra le dita custodia e libretto. Lo faccio con quell’aria un po’ istrionica e buffa che mi appartiene, cercando, tuttavia, di darmi un tono; come se qualcuno mi stesse riprendendo con una camera.
Conosco i tuoi occhi e so che sono lì, dietro quella tenda che, un giorno, cambieremo.

Spesso ascolto solo quella canzone; per il momento, sono permeato da quella forza che consente di vivere una strana storia in clandestinità.
Domani, penso, domani finirà.

L’ultimo bacio

Mi sembrava di sentirti correre, in quelle notti d’agosto.
Non riuscivo a dormire e cercavo un modo per fartela pagare.
Cercavo anche un modo per dirti che, nonostante tutto, ancora ti amavo.

Cercavo le parole giuste, che sarebbero certamente arrivate, ma nel tempo sbagliato;
quando la mia voce profonda e vibrante -vibrante di una povera e magra consolazione- ti avrebbe detto che non ero più lì, ad aspettarti.

Mi sembrava di sentirti correre, in quelle notti d’agosto. Attraversavi la Merulana, con i vestiti strappati e le lacrime piene di sbavature di un Pierrot che era stato ferito, non solo in scena, ma anche nella vita reale.

E poi mi sembrava di sentirti, ancora, ferma sul mio petto, a disegnare un futuro che, inevitabilmente, non sarebbe stato nostro, ma solo tuo.
E, sullo sfondo, una colonna sonora infinitamente triste. Per me.

Le case

Capita anche a me di avere ricordi vaghi, confusi.
Mi succede quando inizio a superare ciò ch’è legato a quegli stessi ricordi; quando vedo da lontano qualcosa che prima si muoveva e ora è inerme; una cosa che si allontana, come se la stessi guardando da uno specchietto retrovisore.

Sono in automobile, aspetto che mia sorella compri le ultime cose.
È quasi Natale e c’è sempre quell’atmosfera strana, quando è quasi Natale.
So che tra poco sarò a casa con i miei, che non litigherò, so anche che, tra qualche ora, mi metterò in viaggio per venire a regalarti un sorriso e una giornata serena, senza litigi. Con tutti gli “speriamo” del caso, senz’altro.

Sono in automobile, consapevole del fatto che tutto, ormai, stia andando a rotoli, trascinato com’è, da mesi, da un’insofferenza atomica.
È tutto così lontano da quel primo bacio, dalle fughe, da quegli incontri in clandestinità. Non c’è il freddo di Bologna, non ci sono i colori di Venezia, né il fascino del lungarno pisano.
Però è quasi Natale, dai.
Dai, che magari ci facciamo un bel regalo e cessiamo queste stupide ostilità.

Scarto un cd. L’ho trovato a poco, originale, e quindi ho deciso di acquistarlo. “Il ballo di S. Vito”.
Quante volte avrò ascoltato quell’album? Centinaia, eppure, rimettendolo su, mi faccio colpire da una traccia.

Prendo il telefono.

“Mon amour, stavo riascoltando “Le case”. Trovo che sia straziante. Trovo che c’entri troppo con questi giorni. E niente, così, volevo dirtelo. Ma tu aspettami, ché tra un paio di giorni arrivo.
Ma tu te la ricordi, “Le case”?”

“Sì, Rug, me la ricordo. Ma non ascoltare cose tristi.”

I ricordi sono vaghi.

Sono contento di ascoltare cose tristi. Perché sono triste.
La musica, anche questa volta, non mi tradisce.

gesti alzati in fretta nel mattino
calda assenza a fianco al comodino
treni, stazioni, biglietti
sepolti nei letti…

È quasi Natale.
Dai, che magari non andrà così.
E invece.

When the music’s over…

Concentro tutto il senso della canzone nelle prime misure: tra quell’intro di organetto e quell’urlo.
E penso al silenzio di una sala, all’interno della quale restiamo assorti, in contemplazione e con le luci basse. Per anni.
Poi, a un certo punto, spegniamo la luce.
Spegniamo la luce, quando qualcosa di noi finisce: un amico, l’amore, la vita.

Turn out the lights.

Somewhere over the doors,
rest in peace, Ray.