#CheNeSannoI2000

E basta!
Perdonate lo sfogo.

Da diverso tempo, gli anziani della rete, e non solo quelli della rete -e non solo gli anziani, in verità-, pronunciano questa frase: “Ma che ne sanno i 2000!”.
Questa frase è diventata, tra le altre cose, un hashtag, hashtag che battezza vignette, immagini o brevi racconti di cose che furono e che oggi non sono più e che, naturalmente, i ragazzi nati dal 2000 in poi non hanno vissuto e non potranno vivere (e meno male?).

Gli argomenti rispolverati sono tanti: le mode -oscene- degli anni ’80, le “notti magiche, inseguendo un gol”, le sigle dei cartoni animati di una volta, et cetera. Potrei andare avanti all’infinito, ma non lo farò -anche se la tentazione è forte- e mi soffermerò su un solo elemento.
Non nego di aver provato una certa nostalgia e di aver accennato un mezzo sorriso, nel momento in cui ho visto, per la prima volta, questa immagine:

La prima volta. Dopodiché, i miei due mezzi neuroni hanno iniziato a lavorare.
Perché i 2000 dovrebbero saperlo? Perché fargli pesare il fatto di non aver provato a riavvolgere un nastro? Perché ironizzare su quella che pensiamo possa o, addirittura, debba essere una lacuna?

In giovine età ho letteralmente consumato la musicassetta di “Master of puppets” dei Metallica.
Ascoltavo l’album andando a scuola, sul mio cinquantino mezzo scassato (e sì, avevo ancora i capelli e il casco non era obbligatorio).

Avevo un walkman già abbastanza evoluto: aveva la funzione dell’autoreverse! Questa funzione evitava di doverlo necessariamente aprire per girare il nastro e iniziare ad ascoltare l’altro lato. Di contro, non era in grado di determinare la fine di una traccia e l’inizio della successiva (ne ho visti pochi di quei walkman, ma vi assicuro che esistevano -ah, maledetti ricconi-).

Vi elenco le tracce del lato A e del lato B di quell’album (perdonate l’approssimazione del modello, non è in scala e non è a colori):

Lato A
Battery
Master of puppets
The thing that should not be
Welcome home (sanitarium)

Lato B
Disposable heroes
Leper messiah
Orion
Damage, Inc.

Pensateci un attimo. Voglio dire: siamo giunti all’ascolto di “Leper messiah”, ma, per un motivo inspiegabile, vogliamo riascoltare “Master of puppets”.
Fate i vostri calcoli e memorizzate le possibili combinazioni per poter ritornare al punto esatto del lato A.

Tutto bello. Viva la nostalgia, che, ogni tanto, ci fa sguazzare nel passato, e viva le musicassette! Ma che rottura di coglioni, ça va sans dire.
E fategli vivere il presente in pace, a questi beati 2000.

FFW

Tra una tesi e l’altra

Non so, esattamente, come mi sia balenata per la testa l’idea di usare quell’orribile carattere per i titoli dei miei articoli; sta di fatto che non riesco a eliminarlo. [AGGIORNAMENTO: sono riuscito a eliminarlo.]
La cosa più grave è che, il 99% delle volte, non mostra nemmeno i miei amati segni di interpunzione. E che cazzo punto
Va detto, inoltre, che la mia pigrizia mi impedisce di cercare aiuto su google.
“Non devi immaginare, devi fare search” (Stefano docet).
E chi cazzo è Stefano? Vabbè, è un amico. Voi lo sapete che noi terroni ci teniamo assai al nome di battesimo; potrei scrivere un articolo solo su questo, in effetti.
E invece no.

Passavo di qui, per dare un’occhiata alle macerie delle mie idee (brevi periodi, lettere piene di lacrime e frasi sospese tra il grottesco e il tragicomico).

Che cosa è successo nel frattempo?
Nel frattempo ho lasciato la Toscana e sono tornato a Roma.
Nel frattempo ho cambiato lavoro, ho ricomprato la moto e ho iniziato un nuovo viaggio.
Nel frattempo mi sono abbuffato di concerti: Battiato, Silvestri, Silvestri, Silvestri, Silvestri, Silvestri, Gazzè, Fabi, Lady Gaga e Tony Bennett, David Gilmour, Otto Ohm e tra qualche mese i Depeche e di nuovo Silvestri e ancora Gazzè.
E tanti altri ancora, primaduranteedopo.
Nel frattempo ho rivisto la mia vecchia casa, rivisto facce che non avrei voluto rivedere, sentito cose che, mio malgrado, ho dovuto ascoltare.

Gli anni passano e risulta sempre più difficile riprendersi dopo un viaggio.
Così, lascio che sia la mia testa ad andare (che è andata “da mò”, ma va bene così).

E nel frattempo, mentre scrivo velocemente al mio portatile, un’altra persona sta scrivendo la propria tesi, mentre io faccio le mie ipotesi e mentre Battiato risuona nella testa, durante la lettura di altri blog e la scrittura di questa ennesima inutilità.

Bisous.

L’amore rubato

Correva l’anno 1988.
Il festival della canzone italiana, quell’anno, veniva presentato da Gabriella Carlucci e da Miguel Bosé.
Io ero piccino, ma ricordo che fu strano non vedere sul palco il nostro Super Pippo nazionale.
Io ero piccino, ma ricordo benissimo la canzone che vinse la manifestazione: “Perdere l’amore”; e ricordo benissimo quella che si classificò al terzo posto. Vabbè, per inciso, ci sarebbe da menzionare anche l’eterno secondo con “Emozioni”, ma non è questo il momento adatto per ridere.

La terza classificata era una canzone di un nostro cantautore romano: Luca Barbarossa.
Il testo trattava, senza troppi giri di parole, il tema della violenza sulle donne.
“L’amore rubato”. Ero piccino, ma ricordo che rimasi scosso. Parecchio scosso.
Figuriamoci: un bambino non può che avere un’idea idilliaca dell’amore, a meno che non sia figlio della strega di Biancaneve e allora lì le cose cambiano.

la ragazza non immaginava
che così forte fosse il dolore

passava il vento e lei pregava
che non tornassero quelle parole

adesso muoviti fammi godere
se non ti piace puoi anche gridare
tanto nessuno potrà sentire
tanto nessuno ti potrà salvare

Quindi nel 1988, ben lontani e al riparo dalla potenza di fuoco dei nostri amati social, Luca Barbarossa sbatteva in faccia alla gente un tema -credetemi- per l’epoca assai imbarazzante e poco dibattuto o, meglio, dibattuto in maniera diversa rispetto a oggi.
Eravamo ancora lì a escogitare un modo per abbattere muri di cemento e muri di gomma, prima di riuscire a parlare, più o meno liberamente, di sesso, violenza, contraccettivi e divorzi.

E oggi, alla fine del 2014, diciamo pure all’albeggiare del 2015, la gente ancora ricorre a ridicoli mezzucci per auto-promuoversi e per tentare di instillare, nelle nostre ormai mature coscienze, contenuti di una pochezza e di una brutalità disarmanti.

Per fortuna, c’è ancora qualcuno che usa la testa e i mezzi di cui dispone per contrastare correnti che, attraverso il buonismo, riescono a fare più danni dei proiettili.

Buon Anno a tutti.

E poi mi dissero…

“Questa è la nostra canzone.”
“In che senso, scusate?”
“Dai, Nomade, la nostra canzone d’amore. Il nostro primo ballo lento, no?”
“La vostra canzone d’amore… Ma non è una canzone d’amore!”

Ecco perché, non molto tempo fa, mi soffermai a pensare, per l’ennesima volta, alla melodia e al testo. Sopravvivono l’una all’altro, per una qualche maledizione, come entità separate. La forma e il contenuto si dissociano, anche se solo per alcuni minuti. E ancora una volta lo fanno, senza rigore e senza morale.

Così, una volta tornato a casa, la riascoltai, prestando particolare attenzione al testo, come se non lo conoscessi.
“E no, cazzo! Questi vogliono ballare proprio su questa canzone… Ma nel giorno del loro matrimonio?! Troppa tristezza!”

Ma poi, come succede a volte, mi ritornò in mente un episodio simile.

Quella volta fui io a proporre una canzone per un lento. Nel giorno del suo matrimonio. E per me, quella era una canzone d’amore. Una canzone da “primo ballo lento”. Ma l’amore non più corrisposto è ancora amore? Merita la stessa attenzione del grande amore? Nobilita il contenuto, attraverso la sua nuova forma? La risposta ce l’ho, ovviamente. Eppure la proposi. E la ballai proprio con lei. Pensa tu. Con la sposa. Era un messaggio piuttosto chiaro, devo dire.

Passato prossimo, passato remoto e presente: che malinconica intersezione.
Manca l’ultima canzone. Facciamoci fregare ancora una volta dalla melodia.
Ma che sia l’ultima, questa volta.

De rerum fuffa

Pioveva a dirotto, quella sera. Avevamo, tuttavia, una casa che ci avrebbe ospitati e ottimo cibo da condividere con gli amici. Veri amici.
Il capitano aveva deciso che avremmo mangiato sushi, preparato secondo la tradizione giapponese. (E poi lui era un cuoco, e la compagna veniva dalle isole di Cipango. E devo dire che il suo mestiere lo sapeva fare proprio bene. Il capitano, non lei.)

Dicevo. Pioveva a dirotto e, nell’attesa che qualcuno venisse a prelevarci, iniziammo a scattarci foto.
Un po’ come fanno i bimbiminchia, un po’ come fanno i giovani innamorati, che ancora qualcosa hanno da dire e da fare, e ancora qualcosa vogliono sperare di potersi raccontare.

Il cinquantino era nuovo di pacca. L’acquistai lassù, in un negozio del quale, stranamente, non ricordo il nome. In una via -questa poi…- della quale non ricordo il nome.

Pioveva a dirotto, non si vedeva un tubo, e la luminosità era scarsa. Ma voi, intendo proprio voi, avete presente la luminosità degli occhi di un uomo (o mezza sega, via) innamorato? Unite quella luminosità alle prestazioni di un 50mm Canon, e il gioco è fatto.

È tutto qui, quello che ho da dire. Probabilmente di niente posso parlare, oggi, perché niente ho, e niente mi va di avere.

Incredibile

“Perché l’argento, sai, si beve, ma l’oro si aspetta.”

D’altro canto, non posso far finta di non conoscere quell’altro detto: “Non è tutto oro quel che luccica.”
Così, diversi mesi fa, ho smesso di aspettare.
Avevo quasi smesso di desiderare. Qualche giorno fa, in verità, ci sono anche riuscito.
Immaginatemi così, seduto su una colonna, al di sopra di qualsiasi sentimento riconducibile all’amore.
Un brivido.

Ma.
Per caso, direi, ma anche un po’ per volontà, m’è capitato di imbattermi in una storia d’amore che, a pensarla tutta insieme -dalla nascita, fino alla fine-, mi ha fatto venire il mal di testa, e i crampi al cuore.
I motivi sono svariati. Magari l’avevo già vista, già sperimentata.
Magari, invece, assomigliava tanto ad una sceneggiatura scritta a sei mani, da Lynch e dai fratelli Coen: un concentrato di surreale durezza. E non saprei tirar fuori una sintesi migliore di questa.

Perché?
Perché mi ci dovevo imbattere proprio io? Un nomade per scelta, oscuro per necessità (come scrissi in altro loco, diverso tempo fa), dovrebbe starsene in disparte, e smettere di assorbire ragioni e follie di quella cosa lì. L’amore (se lo scrivo un’altra volta, mi metto a urlare).

Nonostante le parole e i pensieri a metà, esiste ancora una forma di fiducia che viaggia e, ogni tanto, si ferma, per accarezzare le persone e farle sorridere. O piangere.
Nonostante tutto, qualcosa è arrivato a questa porta. Inaspettatamente.
E lei, scoprendosi così, si è rivelata incredibile.
Forse, qualcosa esiste ancora, là sotto. (Sotto la colonna, intendo.)

Non so se scendere, però, anche solo per un sorriso. I rischi sono tanti. E l’abbandono, anche senza andare più in là dell’amicizia, sempre dietro l’angolo…

Riposo?

La mano fa ancora male, purtroppo. La nocca è ancora lì, timida, che guarda con aria imbarazzata quel cretino che l’ha frantumata. Io.
Il lavoro pesa e le distanze, oh, le distanze pesano ancor di più, soprattutto quando perdo le chiamate. Ma prima o poi riuscirò a riabbracciarti, e fanculo Tim.

Tu, invece, mi scrivi di volermi bene. Io, d’impulso, vorrei scriverti che non te ne voglio, ma nell’aria rimangono comunque contorni sbiaditi che delineano la tua figura. E dio solo sa quanto sia stata preziosa.

In buona sostanza, il versante affettivo è un po’ una catastrofe, ma tant’è.

Una cosa buona, però, c’è: finalmente riesco a dormire, come non succedeva da circa quattro anni.
Non male. Non male.

Raccontare uno scatto

1 Giugno 2012

Ha smesso di piovere da pochi minuti, l’auto è in doppia fila, i vigili urbani cercano di dirigere il traffico, gli amici di Confindustria ci aspettano per preparare la sala congressi. Ci siamo.

“Ah! Ho dimenticato il microfono in macchina. Scendi tu a prenderlo?”
“D’accordo”

Vado in strada, guardo i vigili, cerco di capire se posso lasciare l’auto lì, ancora per un po’, prendo il microfono e… vado a bere un caffè al bar.
Nel frattempo un’ombra s’allunga e dove prima era il vuoto, adesso è un uomo su una bicicletta. Buffo, l’ometto.

Esco dal bar, ed eccolo lì (in foto), che si guarda intorno, in attesa che qualcuno gli passi qualcosa.
Mi fermo a guardarlo. Devo immortalarlo. Si sta muovendo troppo. Possibile che sia così difficile cogliere l’attimo? Inforca gli occhiali. Accendo una sigaretta. Si rigira. Saluto un’amica. Si stropiccia il naso.

Click

Osservo il risultato. Strano: gli occhiali ti servono per guardare meglio le persone, da quella posizione infelicemente buffa? I tuoi abiti sono puliti e la bicicletta accanto, che ha mollato il proprio fardello qualche minuto fa, perfetta. Mi guardi, sto già caricando la foto su flickr, ti rigiri e poi di nuovo a testa in su, ché sta per piovere un’altra volta.

Nessun cartello, nessun lamento, nessuna richiesta verbale ai passanti. Simpatico, l’ometto.

Porto il microfono a Riccardo.

Altro caffè, questa volta con collega e cliente.
E tu dove sei finito, mon ami?

Non dimendicare.

Un ritorno

Hai ragione, bionda, hai proprio ragione. Non serve a un cazzo, è troppo presto, il tempo curerà le ferite (compresa la mano) e “smettila di fare l’acido”.

Scaldacollo, guanti, chiave inserita.
Mentre indosso il casco, penso alla strada del ritorno.
Potrei percorrerne almeno cinque diverse, per poi ritrovarmi comunque davanti all’olmo, del quale lei conosceva la storia, e io no. Pensa tu.

Vrooooom! Il secondo guizzo della serata, e l’indicatore della temperatura mi prende per il culo: low.

Non posso aspettare che il motore si riscaldi, perché ho voglia di incrociarti, prima di andare a letto, e salutarti ancora.
Scelgo la strada del ritorno e faccio galoppare tutti i cavalli che Anita ha in corpo.
Ti vedo, suono il clacson e volo via, in culo alla notte e alla lentezza.

hey boy hey girl

“Mi vengono in mente i Chemical Brothers”. Già, anche a me.
Siamo tornati? Siamo tornati. E abbiamo ripreso in mano, è il caso di dire, ogni cosa. E la stiamo portando avanti. Come? Alla grande.

Metto su un paio di calzoncini corti, una maglietta bianca (che più bianca non si può), recupero una sigaretta, un accendino, le chiavi di casa e scendo in cortile.

Giulia (seduta nella sua automobile): “Ciao!”
Il Nomade: “Ciao…”
Giulia: “Ma come sei vestito?”
Il Nomade: “Eh, stavo per andare a dormire.”
Giulia: “Ma ti pare? Siamo in mezzo alla strada!”

Mi nascondo dietro una colonna.
Odo un’altra voce.
Nicola: “Alò, ma nte vergogni?”
Il Nomade: “Ma che cazzo volete tutti e due?”

Esaurito il tempo dei convenevoli, iniziamo a parlare della mia mano e di altre amenità.
I condomini (l’avevo dimenticato) sanno essere perfidi, crudeli e più pettegoli delle suocere (o delle parrucchiere).

Arriva un’altra auto.
Nicola: “Ecco, ora siamo al completo!”

Max saluta lampeggiando, e urla qualcosa.
Scende dall’auto.

Max: “Ragazzi, ho qui una bottiglia di bianco, se avete il cavatappi…”
Nicola: “Non scherzare, ce l’ho in macchina.”
Max: “Mancano i bicchieri!”
Il Nomade: “Vado a prenderli io.”

Rientro in casa, mi metto un paio di jeans (uff) e recupero quattro bicchieri.

Giulia: “Ndo te sei cambiato? Nell’ascensore?”
Il Nomade: “No, in un vecchio Motorola 3200.”

Mi mancava questo posto, oh.