“Perché l’argento, sai, si beve, ma l’oro si aspetta.”
D’altro canto, non posso far finta di non conoscere quell’altro detto: “Non è tutto oro quel che luccica.”
Così, diversi mesi fa, ho smesso di aspettare.
Avevo quasi smesso di desiderare. Qualche giorno fa, in verità, ci sono anche riuscito.
Immaginatemi così, seduto su una colonna, al di sopra di qualsiasi sentimento riconducibile all’amore.
Un brivido.
Ma.
Per caso, direi, ma anche un po’ per volontà, m’è capitato di imbattermi in una storia d’amore che, a pensarla tutta insieme -dalla nascita, fino alla fine-, mi ha fatto venire il mal di testa, e i crampi al cuore.
I motivi sono svariati. Magari l’avevo già vista, già sperimentata.
Magari, invece, assomigliava tanto ad una sceneggiatura scritta a sei mani, da Lynch e dai fratelli Coen: un concentrato di surreale durezza. E non saprei tirar fuori una sintesi migliore di questa.
Perché?
Perché mi ci dovevo imbattere proprio io? Un nomade per scelta, oscuro per necessità (come scrissi in altro loco, diverso tempo fa), dovrebbe starsene in disparte, e smettere di assorbire ragioni e follie di quella cosa lì. L’amore (se lo scrivo un’altra volta, mi metto a urlare).
Nonostante le parole e i pensieri a metà, esiste ancora una forma di fiducia che viaggia e, ogni tanto, si ferma, per accarezzare le persone e farle sorridere. O piangere.
Nonostante tutto, qualcosa è arrivato a questa porta. Inaspettatamente.
E lei, scoprendosi così, si è rivelata incredibile.
Forse, qualcosa esiste ancora, là sotto. (Sotto la colonna, intendo.)
Non so se scendere, però, anche solo per un sorriso. I rischi sono tanti. E l’abbandono, anche senza andare più in là dell’amicizia, sempre dietro l’angolo…