Dall’altra parte della sera

Ai piedi della scalinata c’è un chioschetto: è lì che dovrò lasciare metà dei miei sogni.
Mi muovo a fatica verso la meta, mentre ancora risuona l’eco delle canzoni di Patti Smith.

Because the night belongs to lovers.
“Ecco, questa è una delle sue canzoni più famose.”
“Ah, ok.”
Muoviamo in fretta i nostri passi e ci allontaniamo, mentre l’effetto Doppler fa tutto il resto: distorce, allontana e rende innocua una malinconica ironia.

I ricordi svaniscono e mi ritrovo nel classico trambusto pre concerto.

“Ciao, sei in coda per i biglietti? Ne avrei uno in più.”
“Sì. Dai, te lo compro.”
“Grazie. Sai, lei non mi ha raggiunto…”
“Capisco.”

Penso alle volte in cui ho lanciato la mia malcelata tristezza addosso a perfetti sconosciuti. Troppe, forse. Mi ridesto.

“Grazie di nuovo e scusami.”
“Figurati, grazie a te.”

Mi tuffo nella mischia e mi avvicino il più possibile al palco.
Finalmente ti ascolto dal vivo, poeta chiacchierato. Finalmente posso guardarti negli occhi, mentre mi racconti le tue storie. E mentre lei non c’è.

Si spengono le luci e una piccola lampada inizia a dondolare.

E tu non potevi saperlo, ma dopo qualche giorno ti avrei regalato un orsetto viola. Chissà se lo tieni ancora con te. Chissà.

Da solo.

Tutto appare e suona come nuovo, compreso il silenzio prodotto dalle file d’alberi cupi, che si parano davanti a questo piccolo appartamento. Interpreto questa novità come una sorta di muro sonoro silente, sul quale il tempo ode, ben chiare, le nostre parole.

Eppure mi ritrovo da solo, a misurare distanze ancora sconosciute, accompagnato dalla foschia di un novembre affumicato.
Scendo spesso in strada a fotografare la luna, per dedicartela.
Poi penso che vorrei regalartela, la luna, anche se non me l’hai chiesta.
Alla fine di questo anno di cambiamenti ci sei tu, dall’altra parte della sera, ed è tutto così strano, perché non sono innamorato di te, ma sei ormai il mio quotidiano, nell’attesa, nella lontananza, nelle gioie dei piccoli traguardi e nella tensione delle nuove partenze.

È un album molto invernale, mi dici. Lo ascolto e quella sensazione sale precisa a prendermi prima lo stomaco, poi la gola e infine il cervello. Fumo, rigirando tra le dita custodia e libretto. Lo faccio con quell’aria un po’ istrionica e buffa che mi appartiene, cercando, tuttavia, di darmi un tono; come se qualcuno mi stesse riprendendo con una camera.
Conosco i tuoi occhi e so che sono lì, dietro quella tenda che, un giorno, cambieremo.

Spesso ascolto solo quella canzone; per il momento, sono permeato da quella forza che consente di vivere una strana storia in clandestinità.
Domani, penso, domani finirà.

Le case

Capita anche a me di avere ricordi vaghi, confusi.
Mi succede quando inizio a superare ciò ch’è legato a quegli stessi ricordi; quando vedo da lontano qualcosa che prima si muoveva e ora è inerme; una cosa che si allontana, come se la stessi guardando da uno specchietto retrovisore.

Sono in automobile, aspetto che mia sorella compri le ultime cose.
È quasi Natale e c’è sempre quell’atmosfera strana, quando è quasi Natale.
So che tra poco sarò a casa con i miei, che non litigherò, so anche che, tra qualche ora, mi metterò in viaggio per venire a regalarti un sorriso e una giornata serena, senza litigi. Con tutti gli “speriamo” del caso, senz’altro.

Sono in automobile, consapevole del fatto che tutto, ormai, stia andando a rotoli, trascinato com’è, da mesi, da un’insofferenza atomica.
È tutto così lontano da quel primo bacio, dalle fughe, da quegli incontri in clandestinità. Non c’è il freddo di Bologna, non ci sono i colori di Venezia, né il fascino del lungarno pisano.
Però è quasi Natale, dai.
Dai, che magari ci facciamo un bel regalo e cessiamo queste stupide ostilità.

Scarto un cd. L’ho trovato a poco, originale, e quindi ho deciso di acquistarlo. “Il ballo di S. Vito”.
Quante volte avrò ascoltato quell’album? Centinaia, eppure, rimettendolo su, mi faccio colpire da una traccia.

Prendo il telefono.

“Mon amour, stavo riascoltando “Le case”. Trovo che sia straziante. Trovo che c’entri troppo con questi giorni. E niente, così, volevo dirtelo. Ma tu aspettami, ché tra un paio di giorni arrivo.
Ma tu te la ricordi, “Le case”?”

“Sì, Rug, me la ricordo. Ma non ascoltare cose tristi.”

I ricordi sono vaghi.

Sono contento di ascoltare cose tristi. Perché sono triste.
La musica, anche questa volta, non mi tradisce.

gesti alzati in fretta nel mattino
calda assenza a fianco al comodino
treni, stazioni, biglietti
sepolti nei letti…

È quasi Natale.
Dai, che magari non andrà così.
E invece.

Acque scure

No, non ha niente a che vedere con campagne di legambiente o similari.
Diciamo che ho finito l’anno navigandole, ma ora va meglio ed i lidi sono già più puliti e tranquilli.

Ho portato a termine la lettura de “Il piccolo principe”, qualche ora fa. Che dire: non sapevo di fiori, di volpi, né di stelle e, leggendo, è affiorato un sorriso sulle mie labbra.

Meglio così, in effetti: era giusto che un serpente mi desse un morso, per farmi tornare lassù.

Propositi per il nuovo anno? Sì, uno solo e lo tengo per me.
Grazie a chi mi è stato vicino in queste settimane e grazie a te, per avermi regalato, comunque, parte della tua vita ed una splendida storia d’amore. Non ti dimenticherò.

Acque scure

No, non ha niente a che vedere con campagne di legambiente o similari.
Diciamo che ho finito l’anno navigandole, ma ora va meglio ed i lidi sono già più puliti e tranquilli.

Ho portato a termine la lettura de “Il piccolo principe”, qualche ora fa. Che dire: non sapevo di fiori, di volpi, né di stelle e, leggendo, è affiorato un sorriso sulle mie labbra.

Meglio così, in effetti: era giusto che un serpente mi desse un morso, per farmi tornare lassù.

Propositi per il nuovo anno? Sì, uno solo e lo tengo per me.
Grazie a chi mi è stato vicino in queste settimane e grazie a te, per avermi regalato, comunque, parte della tua vita ed una splendida storia d’amore. Non ti dimenticherò.

Waiting for someone or something to show you the way

Guardo l’orologio (no, non fa “tic tac”, perché è l’orologio digitale della mia amata guinness-mobile).
Guardo l’orologio e sono le 9.18 a.m. (secondo più, secondo meno).
Penso di conoscere la strada, almeno per questa mattina; l’ennesima, mattina aretina.

Salgo, discendo, freno e scalo. Giro e resto immobile, seppur in movimento, in attesa di scorgere il mio albero, il mio naturale e quotidiano punto di riferimento.

Guardo l’orologio e sono le 9.19 a.m. (secondo più, secondo meno).
Guardo l’orologio e penso che in meno di un minuto mi sono dimenticato di raccontarti una cosa.

Salgo. Pausa. La voce di dio attacca “I wish, I wish you were here…”.
Piango, ed è un pianto scomposto, straziante, dirompente; è un pianto che accompagna la tachicardia e la consapevolezza di essere distante. Siamo distanti perché quelle stesse strade che penso di conoscere, e che percorro sempre volentieri, hanno deciso così.

Succede tutto in un minuto e prima di svoltare, prima di sapere che finalmente arriverò a quell’albero mezzo malato, guardo la strada e penso ad Arezzo.
Mi volto e ci sono i poggi; quei poggi verdi e rigogliosi che mi fanno, di buon grado, accettare questi trenta fastidiosissimi gradi.

Guardo la strada e, in lontananza, il maestoso duomo mi saluta, come fa ogni mattina.
Guardo il campanile e ti vedo, in quel paese antico, mentre aprile fa quello che deve fare.
Guardo la strada e per un momento, durante il pianto, mi sembra di intravedere il pavimento di plastica di una qualsiasi fermata metropolitana. Fermati, per carità.

Sono tachicardico, senza respiro, ed il pianto si fa più forte.
Ma poi svolto e, un minuto dopo circa, tutto scompare.

Tutto scompare perché so che una parte importante della mia vita è qui, perché so che ti sentirò, perché tu, qui, hai lasciato un pezzo di cuore e lo hai fatto insieme a me.

Chi mi indicherà la via?

Guardo l’orologio. Sono le 0.53 a.m.
Guardo l’orologio e ricordo questa giornata in maniera piuttosto confusa.
Solo un momento è chiaro, ed è quel segmento temporale che sta tra le 9.18 e le 9.19 circa.

In quel minuto c’era tutto e, nonostante la distanza, c’eri anche tu.

UPDATE (03.08.2011 h. 23.36): tutti i refusi, o presunti tali, sono dedicati all’amico immaginario.

Waiting for someone or something to show you the way

Guardo l’orologio (no, non fa “tic tac”, perché è l’orologio digitale della mia amata guinness-mobile).
Guardo l’orologio e sono le 9.18 a.m. (secondo più, secondo meno).
Penso di conoscere la strada, almeno per questa mattina; l’ennesima, mattina aretina.

Salgo, discendo, freno e scalo. Giro e resto immobile, seppur in movimento, in attesa di scorgere il mio albero, il mio naturale e quotidiano punto di riferimento.

Guardo l’orologio e sono le 9.19 a.m. (secondo più, secondo meno).
Guardo l’orologio e penso che in meno di un minuto mi sono dimenticato di raccontarti una cosa.

Salgo. Pausa. La voce di dio attacca “I wish, I wish you were here…”.
Piango, ed è un pianto scomposto, straziante, dirompente; è un pianto che accompagna la tachicardia e la consapevolezza di essere distante. Siamo distanti perché quelle stesse strade che penso di conoscere, e che percorro sempre volentieri, hanno deciso così.

Succede tutto in un minuto e prima di svoltare, prima di sapere che finalmente arriverò a quell’albero mezzo malato, guardo la strada e penso ad Arezzo.
Mi volto e ci sono i poggi; quei poggi verdi e rigogliosi che mi fanno, di buon grado, accettare questi trenta fastidiosissimi gradi.

Guardo la strada e, in lontananza, il maestoso duomo mi saluta, come fa ogni mattina.
Guardo il campanile e ti vedo, in quel paese antico, mentre aprile fa quello che deve fare.
Guardo la strada e per un momento, durante il pianto, mi sembra di intravedere il pavimento di plastica di una qualsiasi fermata metropolitana. Fermati, per carità.

Sono tachicardico, senza respiro, ed il pianto si fa più forte.
Ma poi svolto e, un minuto dopo circa, tutto scompare.

Tutto scompare perché so che una parte importante della mia vita è qui, perché so che ti sentirò, perché tu, qui, hai lasciato un pezzo di cuore e lo hai fatto insieme a me.

Chi mi indicherà la via?

Guardo l’orologio. Sono le 0.53 a.m.
Guardo l’orologio e ricordo questa giornata in maniera piuttosto confusa.
Solo un momento è chiaro, ed è quel segmento temporale che sta tra le 9.18 e le 9.19 circa.

In quel minuto c’era tutto e, nonostante la distanza, c’eri anche tu.

UPDATE (03.08.2011 h. 23.36): tutti i refusi, o presunti tali, sono dedicati all’amico immaginario.