Mi raccontò ridendo che quando si cammina con passo rapido, il tempo in cui si svolge un passo non supera il mezzo secondo e che in quel mezzo secondo si movevano nientemeno che cinquantaquattro muscoli. Trasecolai e subito corsi col pensiero alle mie gambe a cercarvi la macchina mostruosa. Io credo di avercela trovata. Naturalmente non riscontrai i cinquantaquattro ordigni, ma una complicazione enorme che perdette il suo ordine dacché io vi ficcai la mia attenzione. Uscii da quel caffè zoppicando e per alcuni giorni zoppicai sempre. Il camminare era per me divenuto un lavoro pesante, e anche lievemente doloroso. A quel groviglio di congegni pareva mancasse oramai l’olio e che, movendosi, si ledessero a vicenda. Pochi giorni appresso, fui colto da un male più grave di cui dirò e che diminuì il primo. Ma ancora oggidì, che ne scrivo, se qualcuno mi guarda quando mi muovo, i cinquantaquattro movimenti s’imbarazzano ed io sono in procinto di cadere.
Guardo l’orologio (no, non fa “tic tac”, perché è l’orologio digitale della mia amata guinness-mobile).
Guardo l’orologio e sono le 9.18 a.m. (secondo più, secondo meno).
Penso di conoscere la strada, almeno per questa mattina; l’ennesima, mattina aretina.
Salgo, discendo, freno e scalo. Giro e resto immobile, seppur in movimento, in attesa di scorgere il mio albero, il mio naturale e quotidiano punto di riferimento.
Guardo l’orologio e sono le 9.19 a.m. (secondo più, secondo meno).
Guardo l’orologio e penso che in meno di un minuto mi sono dimenticato di raccontarti una cosa.
Salgo. Pausa. La voce di dio attacca “I wish, I wish you were here…”.
Piango, ed è un pianto scomposto, straziante, dirompente; è un pianto che accompagna la tachicardia e la consapevolezza di essere distante. Siamo distanti perché quelle stesse strade che penso di conoscere, e che percorro sempre volentieri, hanno deciso così.
Succede tutto in un minuto e prima di svoltare, prima di sapere che finalmente arriverò a quell’albero mezzo malato, guardo la strada e penso ad Arezzo.
Mi volto e ci sono i poggi; quei poggi verdi e rigogliosi che mi fanno, di buon grado, accettare questi trenta fastidiosissimi gradi.
Guardo la strada e, in lontananza, il maestoso duomo mi saluta, come fa ogni mattina.
Guardo il campanile e ti vedo, in quel paese antico, mentre aprile fa quello che deve fare.
Guardo la strada e per un momento, durante il pianto, mi sembra di intravedere il pavimento di plastica di una qualsiasi fermata metropolitana. Fermati, per carità.
Sono tachicardico, senza respiro, ed il pianto si fa più forte.
Ma poi svolto e, un minuto dopo circa, tutto scompare.
Tutto scompare perché so che una parte importante della mia vita è qui, perché so che ti sentirò, perché tu, qui, hai lasciato un pezzo di cuore e lo hai fatto insieme a me.
Chi mi indicherà la via?
Guardo l’orologio. Sono le 0.53 a.m.
Guardo l’orologio e ricordo questa giornata in maniera piuttosto confusa.
Solo un momento è chiaro, ed è quel segmento temporale che sta tra le 9.18 e le 9.19 circa.
In quel minuto c’era tutto e, nonostante la distanza, c’eri anche tu.
UPDATE (03.08.2011 h. 23.36): tutti i refusi, o presunti tali, sono dedicati all’amico immaginario.
Guardo l’orologio (no, non fa “tic tac”, perché è l’orologio digitale della mia amata guinness-mobile).
Guardo l’orologio e sono le 9.18 a.m. (secondo più, secondo meno).
Penso di conoscere la strada, almeno per questa mattina; l’ennesima, mattina aretina.
Salgo, discendo, freno e scalo. Giro e resto immobile, seppur in movimento, in attesa di scorgere il mio albero, il mio naturale e quotidiano punto di riferimento.
Guardo l’orologio e sono le 9.19 a.m. (secondo più, secondo meno).
Guardo l’orologio e penso che in meno di un minuto mi sono dimenticato di raccontarti una cosa.
Salgo. Pausa. La voce di dio attacca “I wish, I wish you were here…”.
Piango, ed è un pianto scomposto, straziante, dirompente; è un pianto che accompagna la tachicardia e la consapevolezza di essere distante. Siamo distanti perché quelle stesse strade che penso di conoscere, e che percorro sempre volentieri, hanno deciso così.
Succede tutto in un minuto e prima di svoltare, prima di sapere che finalmente arriverò a quell’albero mezzo malato, guardo la strada e penso ad Arezzo.
Mi volto e ci sono i poggi; quei poggi verdi e rigogliosi che mi fanno, di buon grado, accettare questi trenta fastidiosissimi gradi.
Guardo la strada e, in lontananza, il maestoso duomo mi saluta, come fa ogni mattina.
Guardo il campanile e ti vedo, in quel paese antico, mentre aprile fa quello che deve fare.
Guardo la strada e per un momento, durante il pianto, mi sembra di intravedere il pavimento di plastica di una qualsiasi fermata metropolitana. Fermati, per carità.
Sono tachicardico, senza respiro, ed il pianto si fa più forte.
Ma poi svolto e, un minuto dopo circa, tutto scompare.
Tutto scompare perché so che una parte importante della mia vita è qui, perché so che ti sentirò, perché tu, qui, hai lasciato un pezzo di cuore e lo hai fatto insieme a me.
Chi mi indicherà la via?
Guardo l’orologio. Sono le 0.53 a.m.
Guardo l’orologio e ricordo questa giornata in maniera piuttosto confusa.
Solo un momento è chiaro, ed è quel segmento temporale che sta tra le 9.18 e le 9.19 circa.
In quel minuto c’era tutto e, nonostante la distanza, c’eri anche tu.
UPDATE (03.08.2011 h. 23.36): tutti i refusi, o presunti tali, sono dedicati all’amico immaginario.
In Arezzo c’è una libreria che chiude molto tardi.
In questa libreria lavorano diversi giovani, i quali, a turno, offrono libri, riparo ed il proprio sapere alla maggior parte dei lettori di Arezzo (magari non è così, magari non si tratta della “maggior parte dei”, ma a me piace pensare che sia proprio così, invece).
In uno di questi giovani, qualche tempo fa, ho individuato il mio amico immaginario.
Così, tutte le settimane passo a trovarlo.
Non ho mai avuto un amico immaginario, da piccino; trent’anni fa, non so perché, non mi concessi il lusso di trovarne uno e di chiacchierare con lui, tutte le volte in cui mi sentivo solo.
L’amico immaginario, in questo caso, esiste davvero ed è, naturalmente, un libraio; ma non è solo un libraio, è anche un giovane di 749 anni.
Non ho il suo numero di telefono, non ho il suo account di faccialibro (anche perché io non ne posseggo uno), non so dove abiti.
E va bene così, mi dico, perché mi sembra, ogni volta che vado a trovarlo, di tornare indietro. Mi sembra che ci sia qualcosa di antico in questo rapporto così estemporaneo.
L’amico immaginario, spesso, apre uno dei libri scritti dai suoi autori preferiti e legge quattro o cinque righe, così, da una pagina a caso.
Può nascere una discussione, si possono sprecare opinioni (in ispecie le mie), oppure si può rimanere in silenzio, semplicemente in ammirazione, grazie a quei pensieri (e a quelle opinioni) che sono d’altri uomini (e d’altri tempi).
Ieri sera era piuttosto nervoso ed io, confesso, ero un po’ in difficoltà, perché la mia presenza, ve lo assicuro, è ingombrante e l’ambiente (a livello sonoro, soprattutto) ne risente parecchio.
Ma poi, insomma, come succede quando si è in buona compagnia (preciso: io ero in buona compagnia, lui un po’ meno), le ore sono scivolate via, tra cazzate e qualche aneddoto, ed alla fine è giunta mezzanotte.
Poco prima di congedarmi, gli ho chiesto: “Com’era il mondo in bianco e nero?” (ricordo che ha 749 anni) e lui mi ha risposto con una citazione: in quel preciso momento, ve lo assicuro, stava parlando Orson Welles.
In Arezzo c’è una libreria che chiude molto tardi.
In questa libreria lavorano diversi giovani, i quali, a turno, offrono libri, riparo ed il proprio sapere alla maggior parte dei lettori di Arezzo (magari non è così, magari non si tratta della “maggior parte dei”, ma a me piace pensare che sia proprio così, invece).
In uno di questi giovani, qualche tempo fa, ho individuato il mio amico immaginario.
Così, tutte le settimane passo a trovarlo.
Non ho mai avuto un amico immaginario, da piccino; trent’anni fa, non so perché, non mi concessi il lusso di trovarne uno e di chiacchierare con lui, tutte le volte in cui mi sentivo solo.
L’amico immaginario, in questo caso, esiste davvero ed è, naturalmente, un libraio; ma non è solo un libraio, è anche un giovane di 749 anni.
Non ho il suo numero di telefono, non ho il suo account di faccialibro (anche perché io non ne posseggo uno), non so dove abiti.
E va bene così, mi dico, perché mi sembra, ogni volta che vado a trovarlo, di tornare indietro. Mi sembra che ci sia qualcosa di antico in questo rapporto così estemporaneo.
L’amico immaginario, spesso, apre uno dei libri scritti dai suoi autori preferiti e legge quattro o cinque righe, così, da una pagina a caso.
Può nascere una discussione, si possono sprecare opinioni (in ispecie le mie), oppure si può rimanere in silenzio, semplicemente in ammirazione, grazie a quei pensieri (e a quelle opinioni) che sono d’altri uomini (e d’altri tempi).
Ieri sera era piuttosto nervoso ed io, confesso, ero un po’ in difficoltà, perché la mia presenza, ve lo assicuro, è ingombrante e l’ambiente (a livello sonoro, soprattutto) ne risente parecchio.
Ma poi, insomma, come succede quando si è in buona compagnia (preciso: io ero in buona compagnia, lui un po’ meno), le ore sono scivolate via, tra cazzate e qualche aneddoto, ed alla fine è giunta mezzanotte.
Poco prima di congedarmi, gli ho chiesto: “Com’era il mondo in bianco e nero?” (ricordo che ha 749 anni) e lui mi ha risposto con una citazione: in quel preciso momento, ve lo assicuro, stava parlando Orson Welles.
Il periodo non è buono.
Guasti, ferie, apparati che decidono di fermarsi et alia.
L’undici maggio mi arriva una mail. Dice quello: “Rug, puoi mandare noi quattro a seguire un corso a Lucca?”.
Io ci penso. Ci penso per un mese intero. Sarebbe bello, penso, e sarebbe davvero utile.
Decido, così, di inviare la mia risposta dopo un mese e due giorni: “Mi spiace, ma questa volta dovrete fare a meno del corso”.
Scrivo così, in modo tranquillo, specificando, inoltre, che ci sono troppe segnalazioni, troppi interventi programmati, e che quattro risorse umane non si possono assentare per una giornata intera. Non questa settimana.
E mi dispiace. Sul serio, dico.
Stamani apro il mio bel client di posta e leggo una risposta che non mi piace; la risposta è di E., il quale sostiene che non ce ne frega un cazzo di far crescere l’azienda e di fare in modo che i tecnici apprendano cose nuove ed utili.
Sì.
“Presidente, forse è il caso di convocare E.”
“Davvero? E perché?”
“Mah, leggi un po’ quello che ha scritto.”
(mentre scrivevo, è passato E. dal mio ufficio e abbiamo fatto due chiacchiere.)
“Rug, mi ha chiamato il Presidente.”
“Lo so, caro E., gli ho chiesto io di convocarti. Sappi che certe decisioni non mi divertono affatto. Però, come ben sai, hai un bel modo del cazzo di scrivere le tue e-mail. Mi dici che non vuoi polemizzare, ma sai benissimo che il risultato che ottieni è proprio quello: la polemica. Sterile, per di più. I modi sono importanti.”
Sembra che abbia capito. Sembra.
Ora stacco il cervello, lo butto a mare e ci rivediamo domani.
La storia che avrei voluto raccontargli è la seguente:
“Mio padre ha un bastone di robinia; lo ha levigato e lo ha tenuto al riparo dall’umidità e dai tarli.
La robinia, una volta essiccata, diventa durissima. Quel bastone è utilissimo, te lo posso assicurare. C’è un problema, però: quand’era giovane, il bastone non è stato legato ad un palo e adesso è torto. Più torto di me. Mio padre ha cercato di renderlo più bello, attraverso la levigatura, ma sempre torto rimane.”
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