Raccontare uno scatto

1 Giugno 2012

Ha smesso di piovere da pochi minuti, l’auto è in doppia fila, i vigili urbani cercano di dirigere il traffico, gli amici di Confindustria ci aspettano per preparare la sala congressi. Ci siamo.

“Ah! Ho dimenticato il microfono in macchina. Scendi tu a prenderlo?”
“D’accordo”

Vado in strada, guardo i vigili, cerco di capire se posso lasciare l’auto lì, ancora per un po’, prendo il microfono e… vado a bere un caffè al bar.
Nel frattempo un’ombra s’allunga e dove prima era il vuoto, adesso è un uomo su una bicicletta. Buffo, l’ometto.

Esco dal bar, ed eccolo lì (in foto), che si guarda intorno, in attesa che qualcuno gli passi qualcosa.
Mi fermo a guardarlo. Devo immortalarlo. Si sta muovendo troppo. Possibile che sia così difficile cogliere l’attimo? Inforca gli occhiali. Accendo una sigaretta. Si rigira. Saluto un’amica. Si stropiccia il naso.

Click

Osservo il risultato. Strano: gli occhiali ti servono per guardare meglio le persone, da quella posizione infelicemente buffa? I tuoi abiti sono puliti e la bicicletta accanto, che ha mollato il proprio fardello qualche minuto fa, perfetta. Mi guardi, sto già caricando la foto su flickr, ti rigiri e poi di nuovo a testa in su, ché sta per piovere un’altra volta.

Nessun cartello, nessun lamento, nessuna richiesta verbale ai passanti. Simpatico, l’ometto.

Porto il microfono a Riccardo.

Altro caffè, questa volta con collega e cliente.
E tu dove sei finito, mon ami?

Non dimendicare.

Un ritorno

Hai ragione, bionda, hai proprio ragione. Non serve a un cazzo, è troppo presto, il tempo curerà le ferite (compresa la mano) e “smettila di fare l’acido”.

Scaldacollo, guanti, chiave inserita.
Mentre indosso il casco, penso alla strada del ritorno.
Potrei percorrerne almeno cinque diverse, per poi ritrovarmi comunque davanti all’olmo, del quale lei conosceva la storia, e io no. Pensa tu.

Vrooooom! Il secondo guizzo della serata, e l’indicatore della temperatura mi prende per il culo: low.

Non posso aspettare che il motore si riscaldi, perché ho voglia di incrociarti, prima di andare a letto, e salutarti ancora.
Scelgo la strada del ritorno e faccio galoppare tutti i cavalli che Anita ha in corpo.
Ti vedo, suono il clacson e volo via, in culo alla notte e alla lentezza.

Fisioterapia

Da diversi giorni guardo la mia mano, cerco la testa del quarto metacarpo, la tocco, ci parlo: “Vieni fuori, dai! Non essere timida!”. Macché, niente da fare.
Sono stato un coglione, e questa è la punizione che merito: l’imperfezione.
Oh, no, non che prima fosse perfetta, ma la mia manona era forte e senza paura. Ora lo è un po’ meno ed è gonfia come un panino “cotto e mozzarella”. Un panino senza verve, del tutto insignificante.

Un consiglio: non litigate mai con un muro o con una fisioterapista, a meno che non siano a debita distanza da voi.

hey boy hey girl

“Mi vengono in mente i Chemical Brothers”. Già, anche a me.
Siamo tornati? Siamo tornati. E abbiamo ripreso in mano, è il caso di dire, ogni cosa. E la stiamo portando avanti. Come? Alla grande.

Metto su un paio di calzoncini corti, una maglietta bianca (che più bianca non si può), recupero una sigaretta, un accendino, le chiavi di casa e scendo in cortile.

Giulia (seduta nella sua automobile): “Ciao!”
Il Nomade: “Ciao…”
Giulia: “Ma come sei vestito?”
Il Nomade: “Eh, stavo per andare a dormire.”
Giulia: “Ma ti pare? Siamo in mezzo alla strada!”

Mi nascondo dietro una colonna.
Odo un’altra voce.
Nicola: “Alò, ma nte vergogni?”
Il Nomade: “Ma che cazzo volete tutti e due?”

Esaurito il tempo dei convenevoli, iniziamo a parlare della mia mano e di altre amenità.
I condomini (l’avevo dimenticato) sanno essere perfidi, crudeli e più pettegoli delle suocere (o delle parrucchiere).

Arriva un’altra auto.
Nicola: “Ecco, ora siamo al completo!”

Max saluta lampeggiando, e urla qualcosa.
Scende dall’auto.

Max: “Ragazzi, ho qui una bottiglia di bianco, se avete il cavatappi…”
Nicola: “Non scherzare, ce l’ho in macchina.”
Max: “Mancano i bicchieri!”
Il Nomade: “Vado a prenderli io.”

Rientro in casa, mi metto un paio di jeans (uff) e recupero quattro bicchieri.

Giulia: “Ndo te sei cambiato? Nell’ascensore?”
Il Nomade: “No, in un vecchio Motorola 3200.”

Mi mancava questo posto, oh.

Come la Garibaldi.

Un sogno coronato. Un amore che aspettavo da tempo.
Ho già perso l’appetito e ho già iniziato a macinare chilometri.
La guinness-mobile, sullo sfondo, mi vedrà andare via leggero e libero, ogni volta che vorrò sentire l’aria passarmi tra i capelli… Sì, ho scritto una puttanata: devo indossare il casco.

Anita e il Nomade. Non male, vero?

Si

Si

L’ultima volta

Sono le 4, minuto più, minuto meno. L’alba è vicina e San Lorenzo sta per svegliarsi.
Beviamo vodka alla pesca. È imbevibile, in verità, e ci sta dando alla testa.
Ma noi continuiamo a berla, e le tue labbra sanno di pesca. La cosa mi stuzzica e io ti stuzzico.
Chissà perché, poi, dato che detesto la frutta. Ah, che pirla, non detesto te. Non ancora.

Mentre bevo, cerco anche di elaborare quanto mi hai detto a proposito dell’amore, e della tua voglia di potere essere sempre libera.

Una fulminea associazione di idee mi fa ricordare una canzone.
La trascrivo, usando una delle tue innumerevoli biro colorate (un turchese acceso, tendente all’azzurro), e poi te la dedico, cantandola sommessamente.
Chissà perché, poi, dato che non amo cantare sottovoce. E però sono quasi le cinque del mattino, qualcuno potrebbe protestare.

Se il cuore nasce marinaio
non potrai averlo,
perché non basta un altro cuore per tenerlo.