Nessun luogo…

There’s no such place as far away, scriveva Richard D. Bach, nel 1976.
Non ricordo, esattamente, quando mi regalarono quel libro. Ricordo solo che lo lessi e lo riposi sorridendo, un’ora dopo averlo aperto.

E da allora, non ricordo esattamente quell’allora, pensare che nessun luogo fosse lontano diventò il mio modo di essere, di non stare fermo, di agire, di creare movimenti, di immaginare nuove realtà, di respirare nuove facce. Di diventare nomade.

C’è una foto, che rappresenta quel pensiero. È l’unico ricordo che mi lega, sebbene le corde siano ormai sottili e logore, alla città che più mi manca in questo momento.

Nessun luogo e' lontano.

Eppure, il solo pensiero di poter, un giorno, riattraversare quel ponte, mi scuote tutto ciò che può essere scosso.
Che la foto sia su flickr, o dentro un vecchio supporto cartaceo, non importa: si ha sempre la facoltà di poter chiudere un album, e di pensare che un giorno verranno scattate altre foto.

De rerum fuffa

Pioveva a dirotto, quella sera. Avevamo, tuttavia, una casa che ci avrebbe ospitati e ottimo cibo da condividere con gli amici. Veri amici.
Il capitano aveva deciso che avremmo mangiato sushi, preparato secondo la tradizione giapponese. (E poi lui era un cuoco, e la compagna veniva dalle isole di Cipango. E devo dire che il suo mestiere lo sapeva fare proprio bene. Il capitano, non lei.)

Dicevo. Pioveva a dirotto e, nell’attesa che qualcuno venisse a prelevarci, iniziammo a scattarci foto.
Un po’ come fanno i bimbiminchia, un po’ come fanno i giovani innamorati, che ancora qualcosa hanno da dire e da fare, e ancora qualcosa vogliono sperare di potersi raccontare.

Il cinquantino era nuovo di pacca. L’acquistai lassù, in un negozio del quale, stranamente, non ricordo il nome. In una via -questa poi…- della quale non ricordo il nome.

Pioveva a dirotto, non si vedeva un tubo, e la luminosità era scarsa. Ma voi, intendo proprio voi, avete presente la luminosità degli occhi di un uomo (o mezza sega, via) innamorato? Unite quella luminosità alle prestazioni di un 50mm Canon, e il gioco è fatto.

È tutto qui, quello che ho da dire. Probabilmente di niente posso parlare, oggi, perché niente ho, e niente mi va di avere.

Tanco del Nomade

Batte una sigaretta, rolla una cartina

È ciò che sto facendo in questo istante, mentre spirali di fumo, di una sigaretta precedente, abbandonano senza fretta il mio palato, la mia lingua e le mie labbra.

Non ho molte storie da raccontare, ma trovo il coraggio di aprire uno scrigno, di estrarre una pipa, e di pensarmi come uno scrittore ch’è ormai arrivato alla frutta, e quasi vede la torta (cit.).

-Non ho mai potuto soffrire ‘sto (cit.), ma poi le persone si offendono, e allora…-

Questo, oggi, è il mio mondo, senza più alcun tipo di aspettativa; con il solito lavoro, le solite facce, le solite beghe e le solite soddisfazioni. E intanto c’è il fumo, mentre il coraggio di muovere ancora alcuni muscoli mi consente di respirare.

Fuori tutto accade anche senza di noi

Non avrei voluto finisse così. Per nulla al mondo. Nonostante tutto, avrei voluto ci fosse un noi, per osservare, compiaciuti, goduti e strafottenti, proprio quello che nel mondo stava accadendo o sarebbe accaduto.

Come in quel posticino, La Torre (che oggi è un barrino per fighetti), dove avevamo osservato coppie stanche e parole disintegrate dal niente:
“Ti prego, dimmi che noi non diventeremo così.”
Te lo promisi, ma poi il male e il mal di vivere e la lontananza. E a quel punto a che cazzo servono le promesse?

Ogni tanto mi chiedo: chissà dove cazzo si trova.
E nel mentre, queste fottute campane. Che Dio l’abbia in gloria (ammesso che possano morire, le campane).

È un attimo poi il tempo scorre più veloce

Prima, seconda, terza (140), e quella che tu definisti voglia di cambiamento.
No, non è voglia di cambiamento; è voglia di imparare a non cadere più, perché ho già imparato a rialzarmi e, sinceramente, è uno sport che non mi diverte più.

Cerca di star bene. Cogli un fiore. Coglilo per te, Marta.

Clint Eastwood in via Petrarca

Piazza Guido Monaco è un crocevia perfetto.
Una delle vie che la incrociano è dedicata al Petrarca.
Non amo quella via, perché è davvero bruttina e dice proprio poco (per non scrivere che non dice un cazzo, ma non l’ho mica scritto, eh).

Però sono sovrappensiero e la imbocco ugualmente, mentre passeggio, per arrivare alla guinness-mobile. Dopo due secondi mi rendo conto che sto per fare un giro assurdo; penso “ma sì, chi se ne fotte, per questa volta”.
La veduta, sebbene non sia in cima ad un poggio, sebbene stiano per calare le tenebre, è strepitosa. Almeno stasera. Il cielo è aperto, lasciatemi dire, e l’unico pino marittimo che si erge proprio là in fondo, bè, non dà minimamente fastidio.
(Che poi dovete spiegarmi voi che cosa cazzo ci stanno a fare i pini marittimi in Arezzo. Mh.)
Mi fermo qualche istante: “Se scattassi una foto, comunque, verrebbe fuori una fotodemmerda“.

(Sì, ho tutte le mie astruse teorie sulla fotografia; niente a che vedere con manuali, corsi, fotografi famosi, tecnica, et similia.)

Anche per oggi non scatterò foto.

Ripresa la via, qualcosa stuzzica la coda dell’occhio, la quale, evidentemente, non risponde solo al fascino delle fanciulle che inciampano nella mia vita.
Nonostante la penombra, mi accorgo che lì, a poche spanne da me, sul marciapiede, c’è una scritta. È un’espressione che mi toglie il fiato, mi fa un po’ male, ma mi fa anche sorridere.
Non posso permettere al tempo di portarmela via, senza che io l’abbia prima fotografata.
Non è nemmeno scritta bene, ma il senso è quello, non c’è dubbio. Lo scatto sarà agghiacciante, ma non importa. La pioggia e il tempo porteranno via ogni cosa.

E dunque click.

Padova Random

Qualche giorno fa, non ricordo assolutamente in che modo, sono inciampato in un blog che mi ha lasciato senza parole.
Il blog in questione è questo; non me ne voglia la tenutaria, per questo piccolo spot pubblicitario non richiesto.

Se voi mi conosceste, capireste i motivi per i quali suddetto blog mi ha colpito.
Ma non è di questo che voglio parlare, naturalmente.

Magari, ecco, leggete i suoi articoli e, se andate a Padova, prestate attenzione all’omino col cilindro.

E grazie, signorina “metticheungiornopercaso”, è stato un piacere rivedere il genio di Kenny Random, da quaggiù.

Connettori Batman

Tra le cose che non sopporto ci sono gli anagrammi. (In cima alla lista ci sono gli acronimi, ma questa è un’altra storia, una storia legata agli anglicismi.)

Oggi ho scoperto che quei ceppi dei miei colleghi hanno perduto -non si sa come- 9 cavi con connettori bantam e rj45, che, a comprarli già fatti, costerebbero circa 70 euro “il cadauno” (avrebbe detto un principe, una volta).

Ma non è questa la storia che voglio raccontare, in realtà.
E non è nemmeno il fatto che, da oggi, quei connettori non siano più bantam, ma batman.
No.

Un passo indietro, Maestro. Grazie.

Torno a casa e, durante il breve viaggio, decido di rispolverare un po’ di vecchia musica. Che è vecchia solo anagraficamente, va detto.
La rispolvero, ben sapendo che non gioverà affatto al mio umore.

Voglio togliere quel po’ di polvere che serve a rendere magiche le cose, quella polvere che restituisce un certo gusto, quando la guardi; perché è proprio questa la magia: la osservi, ma in realtà senti qualcosa in bocca; dopo qualche istante quel qualcosa lambisce la gola e poi arriva allo stomaco, transitando, naturalmente, nei dintorni del muscolo cardiaco. E non lo fa con la presunta pacatezza delle parole che tentano di descrivere quel movimento (sarebbe meglio pensare ad un pugno allo stomaco, in realtà).

Non basta, però. Non è sufficiente pensare a quella musica, mi dico.
Ci vuole una canzone in particolare. Devo rendere nudo quell’oggetto, scoprire una ferita, rivedere la carne viva ed infine curare.

Le nubi sono basse, i poggi tinteggiati d’un verde cupo, i ciliegi esterni sono timidi, ma presenti. L’aria sembra arancione e, nonostante il maltempo, restituisce un certo calore.

“Ci vuole quella canzone”, dico ad alta voce (come se stessi parlando ad una interlocutrice, che ormai non esiste più da anni).
Penso ai suoi occhi. Gli occhi più tristi che abbia mai visto.

E penso all’aria che c’era quel giorno, molto simile a quella che sto attraversando adesso, ed al fatto che quella canzone fosse lì, in loop, non so per quanto, mentre si diceva, si pensava e si sospirava il nostro amore.
La canzone sfuma e ripenso a quei corpi lontani, a quei battiti spenti, a quel sudore asciugato da anni e tutto, dopo aver dissolto la malinconia, mi sembra terribilmente normale.

Nasce, cresce, finisce.
Musica, Maestro.

Un campione e un lanciatore di coltelli

Un bel buco nella nostra corrispondenza di un tempo, non credi?
Hai ragione a dirmi che ti devo una lettera. Da un po’ di tempo del resto devo una lettera praticamente a tutti. Perché? A quanto pare gli anni ti rendono così. Il cavallo che un tempo andava tenuto a freno adesso dev’essere frustato per fargli fare appena un po’ di più che un passo stanco… Quando le energie se ne vanno si diventa sempre più avari nell’usarle. Un uomo dovrebbe svolgere il suo lavoro quotidiano, qualunque esso sia, e poi scrivere sempre un paio di lettere per tenersi in contatto con le persone a cui vuole bene e che non può vedere. Ma mi accorgo che quando finisco quello che passa per essere il mio lavoro quotidiano mi sento del tutto spompato…
I miei complimenti al signor Weeks perché fa parte di quella piccola minoranza di critici che non hanno ritenuto necessario dare una sistemata a Hemingway per il suo ultimo libro(*). Ho appena finito di leggerlo. Francamente non è il migliore che abbia scritto ma rimane comunque una dannata spanna sopra a qualunque cosa possono scrivere i suoi detrattori… Ti saresti aspettato che almeno alcuni di loro si chiedessero cosa stava cercando di fare. Ovviamente non stava cercando di scrivere un capolavoro; ma stava provando a raccontare, con un personaggio non dissimile da lui stesso, l’atteggiamento di un uomo che è alla fine e che lo sa e che per questo è acido e arrabbiato. A quanto pare era stato molto male e non era sicuro di poter guarire, per cui ha messo su carta, in modo piuttosto sbrigativo, il suo stato d’animo nei confronti di ciò che aveva maggiormente amato nella vita. Suppongo che questi pavoni sapientoni che si fanno chiamare critici pensino che non avrebbe dovuto scriverlo affatto, questo libro. La maggior parte delle persone non l’avrebbe fatto. Nelle sue condizioni non avrebbero avuto il fegato di scrivere niente. Sono maledettamente sicuro che io non l’avrei fatto. Questa è la differenza tra un campione e un lanciatore di coltelli. Il campione può perdere la sua ispirazione – temporaneamente o in modo permanente, non può saperlo per certo. Ma quando non è più in grado di lanciare la palla imprendibile, lancia il cuore. Qualcosa lancia. Non ci sta a lasciare il monte e ad andarsene piangendo negli spogliatoi.

Raymond Chandler a Charles W.Morton – 9 ottobre 1950

(*) Di là dal fiume e tra gli alberi, del 1950