Le case

Capita anche a me di avere ricordi vaghi, confusi.
Mi succede quando inizio a superare ciò ch’è legato a quegli stessi ricordi; quando vedo da lontano qualcosa che prima si muoveva e ora è inerme; una cosa che si allontana, come se la stessi guardando da uno specchietto retrovisore.

Sono in automobile, aspetto che mia sorella compri le ultime cose.
È quasi Natale e c’è sempre quell’atmosfera strana, quando è quasi Natale.
So che tra poco sarò a casa con i miei, che non litigherò, so anche che, tra qualche ora, mi metterò in viaggio per venire a regalarti un sorriso e una giornata serena, senza litigi. Con tutti gli “speriamo” del caso, senz’altro.

Sono in automobile, consapevole del fatto che tutto, ormai, stia andando a rotoli, trascinato com’è, da mesi, da un’insofferenza atomica.
È tutto così lontano da quel primo bacio, dalle fughe, da quegli incontri in clandestinità. Non c’è il freddo di Bologna, non ci sono i colori di Venezia, né il fascino del lungarno pisano.
Però è quasi Natale, dai.
Dai, che magari ci facciamo un bel regalo e cessiamo queste stupide ostilità.

Scarto un cd. L’ho trovato a poco, originale, e quindi ho deciso di acquistarlo. “Il ballo di S. Vito”.
Quante volte avrò ascoltato quell’album? Centinaia, eppure, rimettendolo su, mi faccio colpire da una traccia.

Prendo il telefono.

“Mon amour, stavo riascoltando “Le case”. Trovo che sia straziante. Trovo che c’entri troppo con questi giorni. E niente, così, volevo dirtelo. Ma tu aspettami, ché tra un paio di giorni arrivo.
Ma tu te la ricordi, “Le case”?”

“Sì, Rug, me la ricordo. Ma non ascoltare cose tristi.”

I ricordi sono vaghi.

Sono contento di ascoltare cose tristi. Perché sono triste.
La musica, anche questa volta, non mi tradisce.

gesti alzati in fretta nel mattino
calda assenza a fianco al comodino
treni, stazioni, biglietti
sepolti nei letti…

È quasi Natale.
Dai, che magari non andrà così.
E invece.

Chi lascia la strada vecchia…

L’autunno è alle porte. L’ho già vissuto tante volte. È facile immaginarne i colori e gli umori.
La bassa novarese offre le prime foschie, che sanno ancora di funghi e già di muschio.
Nei pressi del centro, le persone attendono la cattiva stagione, le giornate corte e il nero delle caldarroste.
Penso alla fine di un bel libro e all’inizio di un nuovo copione, mentre spio il principio di questa malinconica stagione.

Oggi c’è un sole timido, timido come la morte che ho negli occhi.
Ti aspetto, mentre mastico gomme e pensieri più o meno opachi.

Arrivi.

Accidenti, sei sempre tu, questo lo devo ammettere. Il tuo viso è pulito, le tue labbra perfette, i tuoi occhi azzurri come quello strano cielo primaverile che vide il nostro primo bacio, qualche anno prima.

“Guida tu.”
“No, dai, guida tu.”
“Ok.”

Andiamo incontro al nostro destino, a circa novanta chilometri orari. Il mio sguardo è fisso, ho la gola secca e non dico una parola. Guardi la strada e con la coda dell’occhio guardi me.
Prendi una musicassetta e la spingi con dolcezza. Ti conosco. So che lo stai facendo per accarezzarmi, ma so anche che non ci riuscirai.

Samuele Bersani inizia a cantare una delle sue canzoni, una delle nostre canzoni.
Il mio sguardo è fisso, ho la gola secca e non dico una parola.

Mi guardi, rallenti, mi riguardi.
“Non te ne frega più niente.”

A quel punto ti chiedo di fermarti.
“Forse tu e io dobbiamo parlare.”

When the music’s over…

Concentro tutto il senso della canzone nelle prime misure: tra quell’intro di organetto e quell’urlo.
E penso al silenzio di una sala, all’interno della quale restiamo assorti, in contemplazione e con le luci basse. Per anni.
Poi, a un certo punto, spegniamo la luce.
Spegniamo la luce, quando qualcosa di noi finisce: un amico, l’amore, la vita.

Turn out the lights.

Somewhere over the doors,
rest in peace, Ray.

Come piace(va) a me.

Credo ci sia ancora qualcosa da dire.
Ti chiedo, quindi, di ritagliarti un po’ di tempo.

Dopo una cruda e nuda chiacchierata, ho bisogno di capire che cosa cazzo stai provando e che cosa vuoi, ancora, da me.

Arrivi tardi. Ecco il trillo. Rispondo. Il cammino è in discesa, penso, sarà più facile lasciarti andare via, non potendo guardare i tuoi occhi.
Tu, non so come, riesci a vedere me e so che mi vedi tremendamente alterato.

Ciao, posso capire che cosa vuoi? (Mi risponderai qualche tempo dopo: “Non voglio niente”, con quell’aria di chi la sa lunga, di chi è navigato; è un’aria che, però, non ti appartiene.)

Rigiro tra le mani un bicchiere, mentre singhiozzo, ti canto pezzi di canzoni che sono adatte al momento.
Ma poi, e nemmeno ricordo il motivo, a un certo punto mi va il sangue alla testa, inizio a piangere, quasi a urlare, mi alzo dalla sedia e cado. Cado rovinosamente, voglio dire, perdo i sensi per un attimo e tu sei lì, a pensare chissà che cosa, dopo aver sentito il tonfo, appesa a una cornetta invisibile.

Mi riprendo, guardo quel fottuto bicchiere di whiskey (che, da allora, non bevo più), vado a vomitare anche l’anima e poi ti chiamo.

***

Ho sempre detestato gli strascichi.

Letture.

“Ero così impegnato a leggerti tra le righe da non accorgermi che, in realtà, eri solo una pagina vuota.”

A questo punto dovrebbe partire una canzone strappa-lacrime: qualcosa dei Subsonica, toh, oppure una ballata blues, di quelle che ti fanno piangere, come se ti stessero schiacciando le dita e l’anima in una pressa.

E invece non parte proprio nulla, perché a spremere una pagina vuota non si ottengono lacrime e non si ottengono melodie. Non si ottiene niente. Ed è proprio quel niente la giusta musica sulla quale, oggi, mi sembra tu ti stia muovendo.

E poi mi dissero…

“Questa è la nostra canzone.”
“In che senso, scusate?”
“Dai, Nomade, la nostra canzone d’amore. Il nostro primo ballo lento, no?”
“La vostra canzone d’amore… Ma non è una canzone d’amore!”

Ecco perché, non molto tempo fa, mi soffermai a pensare, per l’ennesima volta, alla melodia e al testo. Sopravvivono l’una all’altro, per una qualche maledizione, come entità separate. La forma e il contenuto si dissociano, anche se solo per alcuni minuti. E ancora una volta lo fanno, senza rigore e senza morale.

Così, una volta tornato a casa, la riascoltai, prestando particolare attenzione al testo, come se non lo conoscessi.
“E no, cazzo! Questi vogliono ballare proprio su questa canzone… Ma nel giorno del loro matrimonio?! Troppa tristezza!”

Ma poi, come succede a volte, mi ritornò in mente un episodio simile.

Quella volta fui io a proporre una canzone per un lento. Nel giorno del suo matrimonio. E per me, quella era una canzone d’amore. Una canzone da “primo ballo lento”. Ma l’amore non più corrisposto è ancora amore? Merita la stessa attenzione del grande amore? Nobilita il contenuto, attraverso la sua nuova forma? La risposta ce l’ho, ovviamente. Eppure la proposi. E la ballai proprio con lei. Pensa tu. Con la sposa. Era un messaggio piuttosto chiaro, devo dire.

Passato prossimo, passato remoto e presente: che malinconica intersezione.
Manca l’ultima canzone. Facciamoci fregare ancora una volta dalla melodia.
Ma che sia l’ultima, questa volta.

Rumori di sottofondo.

Arrivo puntuale. Ti chiamo e mi dici che stai per arrivare in stazione.
Termini. Quanto tempo è passato? Qualche mese.
Ho una voglia matta di rivederti, anche se so che mi farà estremamente male, e che a entrambi luccicheranno gli occhi, prima di salutarci, vis-a-vis, per l’ultima volta.

– Ciao Pì, (E non vogliamo metterla una bella frase di circostanza?) ti trovo bene.
– Anche io ti trovo bene, Pì.

Due Pì. Tu piccola, io pirla.
Parliamo del più e del meno, della mia improvvisa partenza da Roma, del tuo lavoro, della tua vita e dell’ultimo sbaglio. (Ricordi? Era il giorno del mio compleanno e finimmo a letto. Sì, certo, come potrei dimenticarlo?)

– Ascolti ancora le nostre canzoni?
– No, non più.
– Bè, anch’io…
– Hai sentito il nuovo album dei Muse?
– Qualche traccia.
– Che te ne pare?
– Penso possa piacermi.
– Va bene, aspetta.

Mi alzo e corro verso la Ricordi. Mi faccio due piani della stazione, saltando persone e rampe di scale. Entro in negozio, prendo il cd, grazie non stia a incartarlo e arrivederci, e dopo cinque minuti sono di nuovo da te.

– Chiudi gli occhi.
– Ma…
– Aprili.

Absolution.

Finisce così, dunque, con il perdono dei nostri peccati.
Ho saputo che sei convolata a nozze. Ma tu non eri quella che…?
Un sorriso.

Amore, eh?

Estate 2003.

Un caldo fottuto, infernale. A Roma, dove sto di casa, anche le tende cercano un po’ di fresco.
Mi chiami: “Si va a una festa dalle parti di Rieti. Vieni anche tu?”

Porti lo stesso nome di una donna che ho appena perso, non posso ignorarlo, hai quasi quindici anni più di me, non posso ignorare nemmeno questo, e, ogni volta che esco con te, bè, mi batte il cuore. Forte. Parecchio forte. Posso ignorare almeno questa cosa?

“Sì, dai. Passi a prendermi tu?”

Arriviamo in questo posto molto “cool”, avrebbero detto i nostri amici inglesi; si tratta di una villa con annesso giardino a terrazze, piscina, alcool, fumo, strappone e dj di turno.

“Vado a salutare un paio di amici. Mi aspetti qui?”
Certo, non ti dico io. Ti guardo. E penso che, come tutto quello che ho perso fino a oggi, perderò anche te.

Parte una canzone nuova (e sappiamo già che sarà un tormentone). Nel frattempo torni e ti metti a ballare. La tua sensualità è imbarazzante. Ti guardo, però, e ti abbraccio, ti respiro a fondo e ti dico che ti voglio bene.
Tra qualche giorno partirò, non ti dico, e non ti rivedrò mai più.