Pelle.

Possiamo evitare di usare la parola “pelle”, vero? Possiamo.

s. f.
Tessuto che riveste esternamente il corpo umano.

Sic et simpliciter.

Non c’è nulla di male, direte voi. Ci si può fermare a una definizione standard; una definizione che non ha colore, non ha odore, a volte un profumo, non ha pieghe, né rughe maliziose, o segni di una rabbia remota, o curve di un odio vitalizzante, o insenature di un mal celato male.

La pelle.
Sulla pelle si sorvola, sulla pelle si adagia il tempo, così come si adagiano gli amanti, i corpi estranei, di figli, magari, oppure di cancri che non possono più essere estirpati. Sulla pelle si scivola.

Dici pelle e senti subito un brivido. Plasmi un’idea, ch’è bianca d’inverno e brunita, o bruciata, in estate.

Posso smettere di parlare di pelle, vero? Posso.

Una dura lotta.

Un giorno, mio padre si avvicinò e, guardandomi molto serenamente, mi disse:
“Figlio mio, smetti di fumare, per favore.”

Lì per lì, rimasi un po’ sorpreso da quel modo così gentile. E, sempre lì per lì, gli risposi:
“Se me lo dici così, quasi quasi, smetto.”

Quel “quasi quasi” mi ha fregato per anni.
Ogni volta che mio padre mi chiedeva perché non smettessi di fumare (tre o quattro volte all’anno, il numero delle mie visite ai miei), io gli rispondevo: “Perché so esattamente quando smetterò di fumare.”
Pensavo a un evento speciale, a qualcosa di veramente e banalmente bello.
Del resto, anche Niccolò cantava: “Non si smette di fumare in un giorno qualunque…”
E così, nella mia testa, cercavo di associare il momento in cui avrei spento l’ultima sigaretta a un istante che non avrei mai potuto scordare.

E invece.
Il giorno è arrivato, senza essere stato annunciato, senza un motivo particolare. Come se, a ben vedere, non possa avere che “giorni qualunque”, nella mia vita.
Oh, sì, così suona un po’ triste tutta la faccenda, ma la cosa importante è che alle 23.49 del 2 aprile 2013, io abbia acceso l’ultima sigaretta. E non quell’ultima sigaretta di cosiniana memoria, ma proprio l’ultima.

Non c’è da essere fieri, né da pensare a chissà quale eroico gesto. E la lotta contro la voglia di accenderne una è davvero dura. Più dura di quanto pensassi.

C’è, tuttavia, un pensiero che mi consola: siccome è tutto inutile, il fatto di voler rendere ancora più inutile quest’ultimo gesto, beh, non mi alletta. Ergo: resisterò e un giorno, in quel giorno speciale, potrò compiere un altro gesto, forse più grandioso e meno egoista.

Quando torni.

C’è sempre la pioggia, quando torni, e le temperature sono poco clementi, come i ricordi.
Ci sono facce e occhi che ti assomigliano; camminano, oppure guidano automobili del futuro, oppure ancora corrono su strade che stanno perdendo pezzi d’asfalto, a causa del tempo.

C’è sempre una domanda, alla quale non so rispondere, quando torni. È l’unica domanda che mi tormenta da mesi, ed è forse l’unica domanda alla quale non saprò mai dare risposta. È una voce lontana a pormela, e ha una cadenza buffa, che assomiglia molto alla tua.

C’è sempre un vento freddo, quando torni, e la sensazione di non riuscire ad arrivare al binario, di non riuscire a vederti salire su quell’ultimo treno: “Grazie di essere venuto al binario, sai?”. Ci sono molti passanti, tratti che non riesco più a separare dai tuoi. E meno male.

C’è sempre un motivo, quando torni. E quel motivo non è una domanda, è una canzone.
Mi sono sempre augurato che una notte, in una notte di malessere, ti potessi svegliare con questa canzone piantata nel cervello, così come successe a me, quella puttana d’una notte.

Ci sono sempre le ultime parole, quando torni. Le parole di una donna di una bellezza disarmante. Tu. Bella e oltremodo affascinante, padrona del mondo e di mille emozioni. E chissà se prima o poi riuscirai a chiedermi se sono vivo, anziché tornare così, assieme alle crepe di ciò che fu.

Ci sono sempre ottimi motivi per sorridere, quando torni. Ma stasera li voglio mettere da parte, e pensare che no, non avrei voluto che finisse. E che finisse così. Ti dedico una lacrima. Solo una.

Ho visto qualcosa

Eccola lì. Torino. Ho lasciato la mia casa da qualche ora, e per il momento non mi manca.
L’autunno è clemente, la città è colorata, il traffico viaggia insieme alla mia musica, senza strappi e senza fretta. Lenta e calda, come la sua voce.

Appuntamento in Piazza Vittorio. Ti vedo, sgrano gli occhi, accosto. Rido e tu ridi.

Ti abbraccio, mi respiri, ti racconto, mi racconti, mi regali un libro e me ne spieghi l’importanza. L’importanza dell’immortalità.
Sembra tutto perfetto. Insieme siamo bellissimi. “Guarda come ci guardano! Ma pensa tu.” Ti rispondo con un sorriso.

“Aspetta, do un colpo di telefono ai miei. Gli dico che andrò a trovarli domani.”
“Dove sei, disgraziato?”
“Vicino, babbo, non ti preoccupare. Ci vediamo domani.”

Saliamo in auto. Giochi con le mie labbra, segui il mio profilo (e tu…) e, all’improvviso, mi baci.
È in quel momento preciso che non capisco proprio più un cazzo, e penso che tutto il mondo possa aspettare sul serio.
Ma poi ti nascondi: “Però, ecco, ci sarebbe lui, che mi sta aspettando…”
“Sa che sono qui?”
“Sì.”
“Capisco.”
E così ti bacio. Ché i baci, a volte, servono anche a quello: a far passare certi pensieri.

Struscio per il corso, aperitivo, cena, whiskey e, infine, un albergo.

“Aspetta, do un colpo di telefono a mia madre per dirle che non tornerò a casa, stasera.”
Ti spendi in un’interpretazione da attrice consumata, e poi mi prendi la mano per portarmi in camera.

Torino. La guardo con la coda dell’occhio: è ancora bellissima, piena di luci, di te, e di una passione che, di lì a poco, ci travolgerà. Sì, proprio come nei film.
Accendo una sigaretta. “Non posso dirti che ti amo. Mi dispiace. Non ce la faccio.”
“Perché?!” Ti rattristi.

Al risveglio, Torino è grigia, spenta. L’albergo sembra più un Holiday Inn, che un albergo a quattro stelle.

Prendo le mie cose e “Buona vita…”

G.

Non so davvero che cosa ti sia passato per la testa, a parte il piombo.
Non mi interessa cercare una giustificazione, perché non voglio giustificarti.
So solo che sono rimasti in sospeso: un cd che non ti ho ancora fatto, una cena a base di bisonte, un concerto dei Litfiba e un giro in moto.

E adesso quelle cose resteranno in sospeso per sempre, perché tu hai deciso così.
Brutta testa di cazzo, non mi hai nemmeno lasciato il tempo per salutarti a modo, per fumare l’ultima sigaretta insieme.

Non serve piangere, lo so, ché nulla ti riporterà indietro.
Addio, G.

Soffermarsi

Un pensiero, la visione di una strada, la sensazione di aver intrapreso il giusto percorso.
Soffermarsi.

La strada deserta e fredda.
Fermarsi.

“Dove cazzo l’ho messa?”
Ricorda, sfoglia, cerca.

“Che cosa ho sbagliato?”
Cerca, ascolta, appunta.

“Che cosa manca?”
Spegni la luce, annaffia lo stomaco, esaurisci l’ossigeno.

Quanto volte ci siamo detti che la storia non si fa con i “se” e con i “ma”?
La storia è quello che ti capita.
Ma se… (tutti e due insieme… oh oh!) ma se solo avessi avuto la possibilità di cantarla, quel giorno, probabilmente, oggi, non mi perseguiterebbe così.

Nessun luogo…

There’s no such place as far away, scriveva Richard D. Bach, nel 1976.
Non ricordo, esattamente, quando mi regalarono quel libro. Ricordo solo che lo lessi e lo riposi sorridendo, un’ora dopo averlo aperto.

E da allora, non ricordo esattamente quell’allora, pensare che nessun luogo fosse lontano diventò il mio modo di essere, di non stare fermo, di agire, di creare movimenti, di immaginare nuove realtà, di respirare nuove facce. Di diventare nomade.

C’è una foto, che rappresenta quel pensiero. È l’unico ricordo che mi lega, sebbene le corde siano ormai sottili e logore, alla città che più mi manca in questo momento.

Nessun luogo e' lontano.

Eppure, il solo pensiero di poter, un giorno, riattraversare quel ponte, mi scuote tutto ciò che può essere scosso.
Che la foto sia su flickr, o dentro un vecchio supporto cartaceo, non importa: si ha sempre la facoltà di poter chiudere un album, e di pensare che un giorno verranno scattate altre foto.

Penny Lane

Immagino che nella vostra vita, almeno una volta, vi abbiano posto la seguente domanda: “Ci credi ai fantasmi?”.
Io credo ai fantasmi, ma non mi aspettavo, dopo quasi undici anni, di rivedere le spoglie di un negozio di dischi. Spoglie rianimate, per giunta!

Siamo a Novara, in zona centro.
Il nome del negozio è sempre lo stesso (sta nell’oggetto del post). Il nome del proprietario? Anche. È proprio lui.

Guardo l’insegna e penso che sia uno scherzo. E invece.
Marco è dentro al negozio (un po’ più bianco, va detto), ma con lo stesso sorriso e la stessa preparazione di qualche anno fa.

Un matto. Chi avvia un’attività, in questo periodo? Ma poi… chi è quel pazzo che riapre un negozio di dischi?! Lui.

Scambiamo qualche chiacchiera (si ricorda ancora delle mie passioni giovanili) e poi do un’occhiata.
Vinili su vinili. Beatles, Pink Floyd, Led Zeppelin, King Crimson… il mio paradiso.

Esco con un 45 giri. Torno a casa felice. In bocca al lupo, ragazzo!

De rerum fuffa

Pioveva a dirotto, quella sera. Avevamo, tuttavia, una casa che ci avrebbe ospitati e ottimo cibo da condividere con gli amici. Veri amici.
Il capitano aveva deciso che avremmo mangiato sushi, preparato secondo la tradizione giapponese. (E poi lui era un cuoco, e la compagna veniva dalle isole di Cipango. E devo dire che il suo mestiere lo sapeva fare proprio bene. Il capitano, non lei.)

Dicevo. Pioveva a dirotto e, nell’attesa che qualcuno venisse a prelevarci, iniziammo a scattarci foto.
Un po’ come fanno i bimbiminchia, un po’ come fanno i giovani innamorati, che ancora qualcosa hanno da dire e da fare, e ancora qualcosa vogliono sperare di potersi raccontare.

Il cinquantino era nuovo di pacca. L’acquistai lassù, in un negozio del quale, stranamente, non ricordo il nome. In una via -questa poi…- della quale non ricordo il nome.

Pioveva a dirotto, non si vedeva un tubo, e la luminosità era scarsa. Ma voi, intendo proprio voi, avete presente la luminosità degli occhi di un uomo (o mezza sega, via) innamorato? Unite quella luminosità alle prestazioni di un 50mm Canon, e il gioco è fatto.

È tutto qui, quello che ho da dire. Probabilmente di niente posso parlare, oggi, perché niente ho, e niente mi va di avere.