E poi mi dissero…

“Questa è la nostra canzone.”
“In che senso, scusate?”
“Dai, Nomade, la nostra canzone d’amore. Il nostro primo ballo lento, no?”
“La vostra canzone d’amore… Ma non è una canzone d’amore!”

Ecco perché, non molto tempo fa, mi soffermai a pensare, per l’ennesima volta, alla melodia e al testo. Sopravvivono l’una all’altro, per una qualche maledizione, come entità separate. La forma e il contenuto si dissociano, anche se solo per alcuni minuti. E ancora una volta lo fanno, senza rigore e senza morale.

Così, una volta tornato a casa, la riascoltai, prestando particolare attenzione al testo, come se non lo conoscessi.
“E no, cazzo! Questi vogliono ballare proprio su questa canzone… Ma nel giorno del loro matrimonio?! Troppa tristezza!”

Ma poi, come succede a volte, mi ritornò in mente un episodio simile.

Quella volta fui io a proporre una canzone per un lento. Nel giorno del suo matrimonio. E per me, quella era una canzone d’amore. Una canzone da “primo ballo lento”. Ma l’amore non più corrisposto è ancora amore? Merita la stessa attenzione del grande amore? Nobilita il contenuto, attraverso la sua nuova forma? La risposta ce l’ho, ovviamente. Eppure la proposi. E la ballai proprio con lei. Pensa tu. Con la sposa. Era un messaggio piuttosto chiaro, devo dire.

Passato prossimo, passato remoto e presente: che malinconica intersezione.
Manca l’ultima canzone. Facciamoci fregare ancora una volta dalla melodia.
Ma che sia l’ultima, questa volta.

Rumori di sottofondo.

Arrivo puntuale. Ti chiamo e mi dici che stai per arrivare in stazione.
Termini. Quanto tempo è passato? Qualche mese.
Ho una voglia matta di rivederti, anche se so che mi farà estremamente male, e che a entrambi luccicheranno gli occhi, prima di salutarci, vis-a-vis, per l’ultima volta.

– Ciao Pì, (E non vogliamo metterla una bella frase di circostanza?) ti trovo bene.
– Anche io ti trovo bene, Pì.

Due Pì. Tu piccola, io pirla.
Parliamo del più e del meno, della mia improvvisa partenza da Roma, del tuo lavoro, della tua vita e dell’ultimo sbaglio. (Ricordi? Era il giorno del mio compleanno e finimmo a letto. Sì, certo, come potrei dimenticarlo?)

– Ascolti ancora le nostre canzoni?
– No, non più.
– Bè, anch’io…
– Hai sentito il nuovo album dei Muse?
– Qualche traccia.
– Che te ne pare?
– Penso possa piacermi.
– Va bene, aspetta.

Mi alzo e corro verso la Ricordi. Mi faccio due piani della stazione, saltando persone e rampe di scale. Entro in negozio, prendo il cd, grazie non stia a incartarlo e arrivederci, e dopo cinque minuti sono di nuovo da te.

– Chiudi gli occhi.
– Ma…
– Aprili.

Absolution.

Finisce così, dunque, con il perdono dei nostri peccati.
Ho saputo che sei convolata a nozze. Ma tu non eri quella che…?
Un sorriso.

Amore, eh?

Estate 2003.

Un caldo fottuto, infernale. A Roma, dove sto di casa, anche le tende cercano un po’ di fresco.
Mi chiami: “Si va a una festa dalle parti di Rieti. Vieni anche tu?”

Porti lo stesso nome di una donna che ho appena perso, non posso ignorarlo, hai quasi quindici anni più di me, non posso ignorare nemmeno questo, e, ogni volta che esco con te, bè, mi batte il cuore. Forte. Parecchio forte. Posso ignorare almeno questa cosa?

“Sì, dai. Passi a prendermi tu?”

Arriviamo in questo posto molto “cool”, avrebbero detto i nostri amici inglesi; si tratta di una villa con annesso giardino a terrazze, piscina, alcool, fumo, strappone e dj di turno.

“Vado a salutare un paio di amici. Mi aspetti qui?”
Certo, non ti dico io. Ti guardo. E penso che, come tutto quello che ho perso fino a oggi, perderò anche te.

Parte una canzone nuova (e sappiamo già che sarà un tormentone). Nel frattempo torni e ti metti a ballare. La tua sensualità è imbarazzante. Ti guardo, però, e ti abbraccio, ti respiro a fondo e ti dico che ti voglio bene.
Tra qualche giorno partirò, non ti dico, e non ti rivedrò mai più.

Quando torni.

C’è sempre la pioggia, quando torni, e le temperature sono poco clementi, come i ricordi.
Ci sono facce e occhi che ti assomigliano; camminano, oppure guidano automobili del futuro, oppure ancora corrono su strade che stanno perdendo pezzi d’asfalto, a causa del tempo.

C’è sempre una domanda, alla quale non so rispondere, quando torni. È l’unica domanda che mi tormenta da mesi, ed è forse l’unica domanda alla quale non saprò mai dare risposta. È una voce lontana a pormela, e ha una cadenza buffa, che assomiglia molto alla tua.

C’è sempre un vento freddo, quando torni, e la sensazione di non riuscire ad arrivare al binario, di non riuscire a vederti salire su quell’ultimo treno: “Grazie di essere venuto al binario, sai?”. Ci sono molti passanti, tratti che non riesco più a separare dai tuoi. E meno male.

C’è sempre un motivo, quando torni. E quel motivo non è una domanda, è una canzone.
Mi sono sempre augurato che una notte, in una notte di malessere, ti potessi svegliare con questa canzone piantata nel cervello, così come successe a me, quella puttana d’una notte.

Ci sono sempre le ultime parole, quando torni. Le parole di una donna di una bellezza disarmante. Tu. Bella e oltremodo affascinante, padrona del mondo e di mille emozioni. E chissà se prima o poi riuscirai a chiedermi se sono vivo, anziché tornare così, assieme alle crepe di ciò che fu.

Ci sono sempre ottimi motivi per sorridere, quando torni. Ma stasera li voglio mettere da parte, e pensare che no, non avrei voluto che finisse. E che finisse così. Ti dedico una lacrima. Solo una.

Ho visto qualcosa

Eccola lì. Torino. Ho lasciato la mia casa da qualche ora, e per il momento non mi manca.
L’autunno è clemente, la città è colorata, il traffico viaggia insieme alla mia musica, senza strappi e senza fretta. Lenta e calda, come la sua voce.

Appuntamento in Piazza Vittorio. Ti vedo, sgrano gli occhi, accosto. Rido e tu ridi.

Ti abbraccio, mi respiri, ti racconto, mi racconti, mi regali un libro e me ne spieghi l’importanza. L’importanza dell’immortalità.
Sembra tutto perfetto. Insieme siamo bellissimi. “Guarda come ci guardano! Ma pensa tu.” Ti rispondo con un sorriso.

“Aspetta, do un colpo di telefono ai miei. Gli dico che andrò a trovarli domani.”
“Dove sei, disgraziato?”
“Vicino, babbo, non ti preoccupare. Ci vediamo domani.”

Saliamo in auto. Giochi con le mie labbra, segui il mio profilo (e tu…) e, all’improvviso, mi baci.
È in quel momento preciso che non capisco proprio più un cazzo, e penso che tutto il mondo possa aspettare sul serio.
Ma poi ti nascondi: “Però, ecco, ci sarebbe lui, che mi sta aspettando…”
“Sa che sono qui?”
“Sì.”
“Capisco.”
E così ti bacio. Ché i baci, a volte, servono anche a quello: a far passare certi pensieri.

Struscio per il corso, aperitivo, cena, whiskey e, infine, un albergo.

“Aspetta, do un colpo di telefono a mia madre per dirle che non tornerò a casa, stasera.”
Ti spendi in un’interpretazione da attrice consumata, e poi mi prendi la mano per portarmi in camera.

Torino. La guardo con la coda dell’occhio: è ancora bellissima, piena di luci, di te, e di una passione che, di lì a poco, ci travolgerà. Sì, proprio come nei film.
Accendo una sigaretta. “Non posso dirti che ti amo. Mi dispiace. Non ce la faccio.”
“Perché?!” Ti rattristi.

Al risveglio, Torino è grigia, spenta. L’albergo sembra più un Holiday Inn, che un albergo a quattro stelle.

Prendo le mie cose e “Buona vita…”

Soffermarsi

Un pensiero, la visione di una strada, la sensazione di aver intrapreso il giusto percorso.
Soffermarsi.

La strada deserta e fredda.
Fermarsi.

“Dove cazzo l’ho messa?”
Ricorda, sfoglia, cerca.

“Che cosa ho sbagliato?”
Cerca, ascolta, appunta.

“Che cosa manca?”
Spegni la luce, annaffia lo stomaco, esaurisci l’ossigeno.

Quanto volte ci siamo detti che la storia non si fa con i “se” e con i “ma”?
La storia è quello che ti capita.
Ma se… (tutti e due insieme… oh oh!) ma se solo avessi avuto la possibilità di cantarla, quel giorno, probabilmente, oggi, non mi perseguiterebbe così.

Penny Lane

Immagino che nella vostra vita, almeno una volta, vi abbiano posto la seguente domanda: “Ci credi ai fantasmi?”.
Io credo ai fantasmi, ma non mi aspettavo, dopo quasi undici anni, di rivedere le spoglie di un negozio di dischi. Spoglie rianimate, per giunta!

Siamo a Novara, in zona centro.
Il nome del negozio è sempre lo stesso (sta nell’oggetto del post). Il nome del proprietario? Anche. È proprio lui.

Guardo l’insegna e penso che sia uno scherzo. E invece.
Marco è dentro al negozio (un po’ più bianco, va detto), ma con lo stesso sorriso e la stessa preparazione di qualche anno fa.

Un matto. Chi avvia un’attività, in questo periodo? Ma poi… chi è quel pazzo che riapre un negozio di dischi?! Lui.

Scambiamo qualche chiacchiera (si ricorda ancora delle mie passioni giovanili) e poi do un’occhiata.
Vinili su vinili. Beatles, Pink Floyd, Led Zeppelin, King Crimson… il mio paradiso.

Esco con un 45 giri. Torno a casa felice. In bocca al lupo, ragazzo!

It’s another sad song that moves like a train

Mi spiace, ma ho esaurito tutte le scuse possibili e immaginabili.
No, non mi sto riferendo alla mia presunta incapacità di provare sentimenti, ma al prossimo venditore ambulante di rose, al quale, davvero, non saprò più che cosa raccontare. Aiuto.
Scritto ciò.

Ascoltare, condividere, dissentire. Magari, mediare. Tenere a bada i ricordi (e i venditori ambulanti di rose) e riuscire a sorridere e a ridere di gusto.
Non me l’aspettavo, devo essere… sincero.
A voler essere ancora più sincero, avrei voluto che questa giornata fosse interminabile.
Avrei voluto lasciare più spazio alla calma, e dare qualche lunghezza alle tante parole, inserendo opportune pause di silenzio.
Infine, riuscire a guardare quegli occhi così intensi, per alcuni istanti in più.

Queste parole stanno qui, tra Arezzo e Saint-Malo. Sono apparentemente differenti da come, in alcuni contesti, vorrei dipingerle, ma in realtà sono facce e rovesci della stessa medaglia. Nella via di mezzo, stanno. Sorridenti, anche se la tastiera vorrebbe mostrarne solo il lato oscuro. Non sai quanto sorridono.

Grazie della fiducia. Grazie di cuore.

Nightfall in Middle Earth

Correva l’anno 1998.

“Oh, hai sentito che è uscito il nuovo album dei Blind Guardian?”
“Eh, sì.”
“Ma che cos’è “Mirror Mirror”?!”
“Gran pezzo, già.”

Però, insomma, io ero legato ai nostri cantautori, e quindi preferivo brani meno “power” e meno “speed”.
Sono sempre stato affezionato alle “ballad” (poi la smetto con gli anglicismi, giuro).
E poi, in quel periodo, ero rapito da “Up” dei R.E.M., ma quella è un’altra storia.

Così, di Nightfall, ascoltavo a ripetizione “The minstrel”, un mini-brano, del quale scrissi i versi in ogni dove.

Buonanotte, gente.

So I stand still
In front of the crowd
Excited faces
What will be next?
I still don’t have a clue

Come il vento a novembre

Un giorno passato a pensare all’indelicatezza della sincerità.
Un giorno passato a smaltire una sensazione che non mi appartiene.
Un giorno passato a pensare che non ho più segreti, né limiti, né confini.
Un giorno passato. L’ennesimo. Lontano da chiunque.

Una notizia sul giornale.
C’è meno transito, ultimamente. I lampioni lavorano di meno, come le ombre, i marciapiedi possono tirare un sospiro di sollievo, i comignoli iniziano a sbuffare e anche io, vedendoli, mi metto a sbuffare.

Fumo.
C’è meno fumo, ultimamente. I posaceneri riposano, sognando d’ardere come tizzoni, il terrazzo non mi riconosce più, tutte le luci stanno fuori ad attendere il mio ritorno.

Un treno.
Vorrei salirci adesso, magari contrarre una malattia epidermica (“what don’t kill you make you more strong”), tuffarmi con orecchie e cuore tra le carezze e le rasoiate delle canzoni di quei quattro cavalieri.

Un gentiluomo.
Così il mio pensiero si scusa con le mie orecchie, e consiglia l’ascolto di musica nuova. Qualsiasi cosa. Basta che sia “post”, direbbe un caro amico. Sigur, dico io. Rós, dice l’altro. Leggerezza e delicatezza.

Una gentildonna.
Rivesto l’ambiente di tappeti sonori, di immagini di luoghi freddi e di luci buie, che faticano a star dietro al passo della notte.

Oscurità.
Ci ritorno, dopo aver passato un giorno ad ascoltare musica.
E a tendere a non desiderare più nulla.
(E ad avercela quasi fatta.)